«Ho poche idee, ma confuse»
Ennio Flaiano
Fine anno è sempre tempo di bilanci. E così, come regolarmente si ripete da anni, anche il 2018 si chiude con molteplici gridi di allarme sui ritardi di spesa dei programmi europei cofinanziati dai Fondi Strutturali (FESR e FSE) e dagli altri Fondi Strutturali e di Investimento Europeo (FEASR e FEAMP).
Il problema è innegabile. All’inizio di ottobre 2018 la capacità di spesa dei fondi per le politiche strutturali – rilevata per l’UE nel suo complesso – si attesta al 18,8%, a fronte di impegni giuridicamente vincolanti che sono pari al 61,4% delle risorse programmate. Per l’Italia, la capacità di impegno si attesta al 54,2% e quella di spesa al 12,5% delle risorse programmate, con uno scarto fra spesa e impegni di poco superiore ai 40 punti percentuali.
I motivi sono molteplici. Vorrei dedicare qualche riga a quello che, a mio modesto avviso, è il motivo principale.
Anzitutto, vorrei ricordare che la programmazione italiana dei Fondi Strutturali non solo è partita in ampio ritardo, ma è anche partita, come già accaduto nelle precedenti programmazioni, con una preoccupante carenza generalizzata di progetti rapidamente cantierabili e/o di nuove idee innovative.
La questione era stata autorevolmente sollevata nel Rapporto Svimez 2014 sull’Economia del Mezzogiorno (v. p. 537) nei seguenti termini: “per una maggiore efficienza ed efficacia del nuovo ciclo 2014-2020, sarebbe cruciale un impegno straordinario per la costruzione, da subito, di un parco di progetti efficaci rispetto agli obiettivi strategici e ai risultati che si intendono perseguire. Queste attività tuttavia richiedono tempi lunghi, pragmatismo, capacità progettuale, spirito manageriale e reale innovazione da parte di chi ha responsabilità di programmazione e di gestione”.
Coloro che sono abituati a ragionare di programmazione dell’azione pubblica sanno bene quanto gli investimenti pluriennali (pubblici e privati) richiedono certamente uno scenario di politica economica stabile e certo (conditio sine qua non per la stabilizzazione delle aspettative). Richiedono parimenti, tuttavia, un adeguato “sistema degli incentivi” (sistema degli incentivi in senso lato). [1]
Anche gli esperti della Svimez dovrebbero interrogarsi su quali siano i nessi – passati e attuali – fra il “sistema degli incentivi” in Italia e la dimensione (irrisoria) e la qualità (sfortunatamente non eccelsa) del parco progetti per accelerare la spesa nello scorcio finale dell’attuale periodo di programmazione.
In Italia, sovente, investimenti e pubblici e privati – sia a livello nazionale, sia a livello locale – sono legati a processi decisionali sovente deteriorati da commistioni poco trasparenti fra sfera pubblica e sfera privata. [2]
Questo produce non solo malaffare, ma anche il deleterio effetto che, in troppi casi, il “sistema degli incentivi” in senso lato premia non operatori e idee innovative, ma bensì, per usare una felice immagine di Geoff Mulgan, le “locuste”, ossia i capitalisti “corrosivi” (come avrebbe detto il grandissimo economista William Baumol), i faccendieri e i rent seekers.
Il problema della modesta ampiezza del parco progetti per realizzare pienamente il profilo di spesa delineato inizialmente è certamente sostanziale. Ma bisogna anche sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità, ormai ineludibile, di rivedere ampiamente il “sistema degli incentivi” in senso lato.
Si tratterebbe di riscrivere, nel Mezzogiorno storico e non solo, un nuovo “patto sociale” in forza del quale vengano premiati il merito degli individui, la trasparenza e, usando di nuovo le indicazioni del Rapporto Svimez citato sopra, “capacità progettuale, spirito manageriale e reale innovazione” di tanti operatori italiani onesti. Urge un “social compact” che affianchi e bilanci il discutibile “fiscal compact”.
In altri termini, per usare categorie interpretative usate da Acemoglu e Robinson nel loro fortunatissimo saggio “Why Nations Fail”, bisognerebbe avviare una profonda stagione di riforme – riforme che vadano al cuore dei processi sociali – che si incardini sullo sviluppo di istituzioni “inclusive”.
Nel male-augurato caso in cui si continuassero a premiare le “locuste” e non le “api”, a mio modesto avviso, sarebbe un po’ sterile continuare a dibattere sulla modesta dimensione del parco progetti. Come già scrivevo nel giugno scorso, non si capisce per quale motivo gli operatori onesti dovrebbero faticare come “api” a formulare progetti tecnicamente validi e innovativi, quando poi dovessero essere ancora premiati, per chissà quali motivi, i progetti di qualità discutibile delle “locuste” che, sia nel Corano sia nella Bibbia, sono presentate come creature che distruggono e saccheggiano.
In estrema sintesi, se in Italia si continuerà a scoraggiare le “api” – laboriose, feconde e capaci di produrre conoscenza condivisa – nei prossimi anni si dovrà continuare parimenti a ragionare su un parco progetti asfittico e di modesta qualità media.
Prendendo a prestito le parole del famoso aforisma di Flaiano, si può dire che avremo sempre “pochi progetti, ma confusi”.
E quel che è peggio, come suggeriva sconsolato il cavaliere Chevalley – “il Piemontese” – al principe di Salina, nella parte finale de Il Gattopardo, a fronte del suo rifiuto di sedere nel nuovo Senato, «se gli uomini onesti si ritireranno, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive […] E tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli». [3]
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[1] Alcuni fa, gli effetti negativi sulla tempistica di attuazione e sugli impatti dei progetti finanziati di una modesta qualità dei processi di progettazione erano stati rimarcati autorevolmente da Gianfranco Viesti in “Mezzogiorno a tradimento” (2009).
[2] Il rischio che comportamenti non cooperativi e forme di collusione “estrattiva” fra operatori pubblici e privati conduca a un arretramento delle dinamiche di sviluppo e delle condizioni civili è stato autorevolmente rimarcato in diversi contributi dall’ex Ministro Trigilia. In un saggio del 2005 – “Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia” – egli rimarcava che “In un quadro di questo tipo, anche risorse crescenti provenienti dall’esterno, per sostenere sviluppo, finiscono per avere effetti perversi; il loro uso non migliora il contesto locale e spinge a comportamenti non favorevoli all’imprenditorialità economica e al mercato” (Trigilia 2005, 37).
Considerazioni analoghe – pochi anni prima – le avanzavano Cersosimo e Perri (2002), ragionando sulla esperienza dei Patti Territoriali e dei Progetti Integrati Territoriali e sull’impatto negativo delle “coalizioni collusive”, nelle quali “i soggetti locali stanno insieme con il solo scopo di intercettare le risorse finanziarie o immateriali legate al Patto”.
Cfr. Cersosimo D., Perri A. (2002), Azione collettiva e sviluppo locale: l’esperienza dei Patti Territoriali, in Cremaschi M. (a cura di) (2002), Politiche territoriali e Patti Europei, Franco Angeli, Milano
[3] Tomasi di Lampedusa G., Il Gattopardo, Edizioni Feltrinelli, Roma, 1986, p. 125