“It is a popular error that bureaucracy
is less flexible than private enterprises.
It may be so in detail,
but when large scale adaptions
have to be made,
central control is far more flexible”
Joan ROBINSON
(Obstacles to Full Employment, 1978, 27) [1]
Fallimenti dell’intervento pubblico e “Stato imprenditoriale”
Una delle diatribe teoriche più accese nelle scienze economiche è quella fra “liberisti”, da una parte, e fra coloro che, invece, sostengono l’importanza dell’intervento pubblico in economia.
I primi sostengono l’idea di uno “Stato minimale” che favorisca il libero operare dei mercati e si faccia carico solo della produzione di alcuni “beni pubblici” fondamentali per una comunità, quali la tutela dell’ordine pubblico e la gestione della giustizia. Essi sono sempre pronti e solerti nel rimarcare alcuni tipici “fallimenti dell’intervento pubblico”, che vengono ricondotti, in genere, all’inerzia dei processi amministrativi e ai comportamenti opportunistici di decisori politici e burocrati.
I secondi, invece, rimarcano come lo Stato abbia un importante ruolo non solo come “regolatore” (in quanto le “istituzioni” hanno un ruolo fondamentale per il buon funzionamento dei mercati), ma anche come produttore di beni pubblici e “controllore” dei beni comuni sul piano microeconomico. Su quello macroeconomico, in linea con gli insegnamenti di John Maynard Keynes [2], sono favorevoli a politiche pubbliche di sostegno alla domada aggregata nei periodi di ristagno economico.
L’importanza specifica dell’intervento statale in economia a sostegno dei processi innovativi e della rivoluzione digitale degli ultimi venti anni (e non solo della ricerca di base) è stata sottolineata (e rilanciata) da Mariana Mazzucato – economista italiana che insegna e lavora all’Università del Sussex in Inghilterra – in un contributo recente che, non a caso, si intitola “lo Stato imprenditoriale” [3].
In questo pregevole contributo, l’economista dell’Università del Sussex rimarca come questo ruolo dello Stato vada oltre quello “keynesiano” di creatore di domanda effettiva e argomenta questa posizione illustrando quanto lo “Stato imprenditoriale” sia sovente il vero “leader” nello sviluppo di nuove tecnologie e, di conseguenza, nella creazione di nuovi mercati. Come evidenziato nella presentazione del libro, ‹‹case studies on the funding of innovations behind Apple’s iPhone, and the funding behind the global renewal energy sector, reveal [that] private sector only invests after the entrepreneurial State has made the high-risks bold investments››.
L’immagine dello Stato che viene tratteggiata dalla Mazzucato, pertanto, è ben diversa da quella, sovente propugnata da più parti, di uno Stato ‹‹too large and heavy to be the dynamic engine››.
Fallimenti dell’intervento pubblico, fallimenti del mercato e riforme istituzionali in Italia
L’immagine di uno Stato ipertrofico e burocratizzato, sfortunatamente, è quella che viene portata a giustificazione delle riforme istituzionali e amministrative da parte del nuovo Governo italiano, come emerge anche dall’analisi del Documento di Economia e Finanza (DEF) approvato dal Consiglio dei Ministri dell’8 aprile scorso (il Comunicato stampa sul DEF è disponibile sul sito della Presidenza del Consiglio).
Il leit motiv del nuovo Governo è che abbiamo bisogno di uno Stato che decida più in fretta e sia più efficiente. Questo è, in linea di massima, certamente vero in Italia. In linea di massima, in quanto anche nel nostro Paese, comunque, ci sono eccellenze anche nel Settore Pubblico.
Tuttavia, appare discutibile sostenere con forza la necessità delle riforme solo per rendere i processi decisionali pubblici più efficienti e per alleggerire le imprese private della “zavorra” degli oneri amministrativi. Semmai, piuttosto che limitarsi a giustificare le riforme del Settore Pubblico sulla base delle conseguenze negative del suo operato farraginoso sulla competitività del sistema produttivo, sarebbe opportuno definire con una certa urgenza una organica politica industriale che, tra le altre cose, preveda una nuova “lenzuolata” di liberalizzazioni, in modo da rendere più flessibili ed efficienti anche i mercati dei beni e dei servizi e non solo quello del lavoro.
Appare un pò sconcertante, inoltre, come in Italia i decisori pubblici continuino a proporre riforme e cambiamenti più o meno radicali delle politiche pubbliche trascurando (o persino ignorando) i risultati delle valutazioni (laddove siano state effettuate) su riforme e politiche pubbliche intraprese negli anni scorsi.
Gli obiettivi principali di riforme istituzionali e amministrative, a parere di chi scrive, dovrebbero essere due:
- indirizzare l’intervento pubblico in Italia verso la definizione di un autentico “Stato imprenditoriale” che, oltre che sui bisogni essenziali della collettività, concentri interventi e spesa pubblica su istruzione (ad ogni livello), ricerca e innovazione. Questo è particolarmente importante nel nostro Paese non solo per limitare le inefficienze dell’amministrazione pubblica e per contenere il deficit pubblico. Una Pubblica Amministrazione italiana riformata, che lavori per obiettivi e promuova educazione, ricerca e innovazione (tecnologica e sociale), infatti, potrebbe fare da traino all’attività innovativa del sistema imprenditoriale italiano che, come è ben noto e certificato dai modesti livelli degli investimenti privati in R&ST, si caratterizza per una debole propensione per la ricerca e tende a privilegiare l’innovazione incrementale;
- rendere il sistema multi-livello di governance italiano maggiormente coerente con quello dell’UE e, soprattutto, con alcuni principi dei sistemi di Multi-Level Governance (MLG) istituzionali, tesi a massimizzarne efficacia ed efficienza.
Il paragrafo finale del contributo si concentra sul secondo obiettivo.
Multi-Level Governance istituzionale e “abolizione” delle Province
Il 3 aprile scorso la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il riordino delle Province previsto dal “ddl Del Rio”.
Il testo finale approvato dalla Camera, pertanto, non prevede l’abolizione definitiva delle Province, come promesso da vari esponenti politici negli ultimi anni, ma la loro trasformazione in “enti di secondo livello”, indicati come “enti di area vasta” e la parziale riduzione delle loro funzioni. In sostanza, più che un passo in avanti, si è fatto un “passo a lato”. Questo in attesa (e nella speranza) di una definitiva eliminazione delle Province con l’annunciata riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione.
A parere di chi scrive questo “passo a lato” non appare soddisfacente, ma comunque qualche beneficio il sistema istituzionale italiano e i cittadini ne dovrebbero trarre. Va anche aggiunto che anche in questo caso, peraltro, appare discutibile il modo in cui la riforma è stata presentata ai cittadini, ossia come un tassello importante del processo di riduzione dei “costi della politica”. Gli obiettivi delle riforme istituzionali e amministrative, come argomentato poc’anzi, dovrebbero essere ben più ambiziosi e, se spiegato chiaramente, i cittadini sarebbero in grado di capirlo.
La mancata abolizione definitiva delle Province non è soddisfacente per almeno due ordini di motivi:
- il sistema di MLG istituzionale per funzionare in modo efficiente richiede, inter alia, pochi livelli di governo e una chiara attribuzione delle competenze assegnate a ciascuno di essi [4]. Il “ddl Del Rio” approvato dalla Camera, invece, si limita a sostituire un livello giurisdizionale con “enti di secondo livello” che, anche se non elettivi, continueranno a “intervenire” in processi decisionali pubblici già abbastanza farraginosi. Già in passato il sistema di MLG italiano è stato appesantito non solo da un numero eccessivo di livelli di governo, ma anche da un numero eccessivo di “enti di secondo livello”, quali Enti Parco o Comunità Montane, sovente tenuti in piedi principalmente per garantire il consolidamento delle constituencies dei politici locali. E’ certamente necessario che vi siano enti che gestiscano “aree vaste” intermedie fra il territorio regionale e quello comunale, ma sarebbe importante che la sostituzione delle Province con “enti di area vasta” conduca rapidamente alla chiusura definitiva di tutti gli altri enti di secondo livello;
- il sistema di MLG istituzionale richiede, inoltre, che su ogni livello giurisdizionale siano collocati enti dello stesso rango istituzionale. Il nuovo ordinamento delineato dal “ddl Del Rio”, invece, prevede una discutibile differenziazione delle funzioni fra le “nuove” Province (97) e le 10 “città metropolitane” che dovrebbero finalmente essere varate da qui a fine 2015. Per le “nuove” Province, infatti, si registra una riduzione delle loro funzioni, mentre le 10 “città metropolitane” conservano, in pratica, tutte le funzioni precedentente delegate alle Province.
A fronte dell’incerto contributo di questa riforma/passo a lato all’efficienza dei processi decionali pubblici che coinvolgono più livelli di governo, emergono comunque due vantaggi che vengono trascurati sia dai media sia dagli stessi cittadini:
- in sede di valutazione del contributo del riordino delle Province alla riduzione dei “costi della politica”, vengono sottovalutati quelli che si potrebbero definire “costi della politica” indiretti, ossia quelli riconducibili a (i) la frammentrazione e l’instabilità dei processi decisionali pubblici comportate da continue elezioni amministrative; (ii) il rallentamento di quelli regionali nel caso delle elezioni amministrative provinciali. E’ ben noto, infatti, che nel caso delle elezioni amministrative provinciali, sistematicamente, si registra un rallentamento dell’attività legislativa e amministrativa delle Regioni. Questo per il fatto che Assessori e altri politici che hanno grande visibilità su scala regionale fanno anch’essi campagna elettorale, a sostegno dei candidati alle elezioni provinciali, sottraendo del tempo al loro mandato di decisori pubblici regionali;
la trasformazione delle Province in “enti di secondo livello” che non saranno elettivi potrebbe favorire l’indebolimento di quelle “collusioni” fra politici eletti e stakeholders locali maggiormente propensi alla “ricerca della rendita” che, sovente, sono la principale causa della mancata (o inefficiente) produzione di beni e servizi collettivi [5].
In sostanza, il Presidente e il Consiglio degli “enti di area vasta” dovrebbero essere meno condizionati sia dai partiti politici, sia dalle pressioni lobbistiche locali e, quindi, meno inclini a usare le risorse pubbliche per fini particolaristici.
Questo, indirettamente, potrebbe anche favorire un maggiore protagonismo di cittadini, di associazioni di cittadini (e di imprese locali) e anche delle fondazioni locali nella tutela e valorizzazione di beni comuni e risorse ambientali e artistico-culturali specifiche alle varie “aree vaste”. In altri termini, si potrebbe registrare un contenimento di quei comportamenti di cittadini e imprese private tesi meramente a ricercare (o difendere) posizioni di rendita presso i politici eletti.
Di converso, a fronte di organi di gestione meno forti politicamente, si potrebbero generare più facilmente dei comportamenti più virtuosi, basati su un protagonismo positivo dei cittadini, su una maggiore cooperazione fra tutti gli stakeholders e sul progressivo rafforzamento della dotazione di “fiducia”, una risorsa certamente scarsa ma che, una volta attivata, è in grado di autogenerarsi ed è caratterizzata da rendimenti crescenti.
Riferimenti bibliografici
[1] ROBINSON J. (1978), Obstacles to Full Employment, in ROBINSON J. (eds.) Contributions to Modern Economics, New York, San Francisco, Academic Press
[2] KEYNES J.M. (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money, London, Mcmillan
[3] MAZZUCATO M. (2013), The Entrepreneurial State. Debunking Public vs. Private Sector Myths, London, New York, Anthem Press
[4] Sul sistema di MLG “verticale” e sui fattori alla base della sua efficienza, si vedano: MARKS G., HOOGHE L. (2004), Contrasting Visions of Multi-Level Governance, in BACHE I, FLINDERS M. (eds.), Multi-Level Governace, Oxford UP, Oxford; BAGARANI M., BONETTI A. (2005), Politiche regionali e Fondi Strutturali. Programmare nel sistema di governo della UE, Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ)
[5] Su questi temi si vedano i contributi di Carlo Trigilia, ex Ministro per la Coesione Territoriale del Governo Letta. In particolare, si vedano: TRIGILIA C. (1992), Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, Il Mulino Bologna; TRIGILIA C. (2005), Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Laterza, Roma-Bari