A Napoli dicono “i soldi non fanno a felicità, ma sapissi a povertà”. I soldi sono importanti per garantire una vita dignitosa alle persone e la crescita nel tempo delle organizzazioni. Queste premesse, un po’ scontate, aprono questo post in quanto esso riporta una intervista a Elena Zanella, figura prominente del fundraising italiano, che da poco ha pubblicato “Professione fundraiser”. L’intervista muove, in particolare, dalle analisi di Elena Zanella nel suo post dell’8 settembre scorso, post dal titolo provocatorio: “Nel fundraising il denaro è l’ultimo dei problemi”. [1]
A.B. Cara Elena, grazie per avermi concesso questa breve intervista e per aiutare me e i lettori di questo blog a capire meglio premesse e direttrici di sviluppo attuali del fundraising, intendendosi qui per fundraising le azioni che una organizzazione non profit sviluppa per raccogliere fondi da operatori privati (cittadini, fondazioni, imprese). Faremo comunque anche qualche considerazione su come estendere, anche negli enti non profit più piccoli, la raccolta di fondi dai privati a quella “istituzionale”, ossia l’accesso ai finanziamenti pubblici.
1. Elena, per favore spiegaci ancora il titolo apparentemente contradditorio del tuo post. E, soprattutto, quanto è difficile per te veicolare questo messaggio ai dirigenti degli enti non profit?
Dott.ssa Zanella. Cerco di spiegare quanto intendo in modo semplice anche se l’argomento non lo è affatto. Il problema del misunderstanding è pensare che il fundraising sia la soluzione, ovvero: trovo un fundraiser e questo si attiva a raccogliere fondi e lo fa velocemente, quasi avesse un portafoglio donatori da portare a patrimonio dell’organizzazione. Questa è l’illusione comune ed è un pensiero tanto errato quanto diffuso. Dobbiamo toglierci dalla testa che sia così. Nessun fundraiser, a meno che non abbia un asso nella manica o non sia fortunato, può garantire una raccolta fondi immediata. Va cambiato quindi l’approccio. L’obiettivo primario del fundraiser è quello di fare in modo di mettere in atto strategie che, se ben attuate e in linea con i principi dell’organizzazione, consentono di raccogliere fondi, denaro quindi. I fondi arrivano perché conseguenza di una richiesta consapevole e organizzata. Più semplicemente, è tutta questione di comportamenti: se sono capace di costruire una proposta di valore che ha un senso e sono capace di presentarla al mio interlocutore in modo adeguato, è probabile che la mia attività si trasformi in sostegno. È per questo che penso che nel fundraising il denaro sia l’ultimo dei problemi. I problemi sono altri e vanno dai contenuti del progetto al modo in cui vengono presentati, dall’identità alla credibilità dell’ente che li propone. Mancando questi, vengono meno le premesse per chiedere il dono perché il dono verrebbe, se richiesto, facilmente rifiutato.
2. Leggendo il tuo post, Elena, sembra emergere, tuttavia, quello che viene indicato come uno dei “fallimenti del terzo settore”, ossia la tendenza agli enti non profit a prestare più attenzione ad aspettative e desiderata dei donatori, che non a quelle dei beneficiari degli interventi poi finanziati con le donazioni. Tu come vedi questo problema? Quanto è forte il rischio che le organizzazioni “curino” più la loro “immagine” (o “statement buona causa”) che non i beneficiari, al fine di incrementare la raccolta fondi?
Dott.ssa Zanella. È un punto di vista interessante ma è, a mio modo di vedere, parziale. Come in ogni impresa che si rispetti, vi sono mansioni che hanno interlocutori privilegiati. Questo accade anche nel nonprofit. Il fundraiser è preposto, in primis, alla cura del dono e del donatore: questo non significa che non abbia a cuore il resto, significa solo che i suoi obiettivi sono diversi da altre funzioni e riguardano in modo particolare gli aspetti di relazione e di sostenibilità. Altre attività sono strettamente collegate ad altre funzioni. Questo accade nelle organizzazioni più strutturate. Nelle più piccole, invece, la cura del donatore è secondaria rispetto alle attività di gestione della donazione e a volte totalmente assente mentre il progetto di missione raccoglie tutta l’attenzione dell’associazione.
3. Nel capitolo 6 del tuo interessante e utile libro “Professione fundraiser” presenti un utile approccio strategico alla raccolta fondi. Anche in quel capitolo, tuttavia, mi pare che emerga un po’ questa tendenza del fundraising e degli esperti di questa professione a focalizzare troppo l’attenzione su quella che indichi come la “identità” dell’organizzazione. In questa tua analisi i destinatari finali degli interventi (gruppo target) non trovano spazio. Elena, stante il fatto che quel capitolo è focalizzato sulla strategia di raccolta fondi, non credi anche in essa dovrebbe trovare un suo spazio il gruppo target delle organizzazioni?
Dott.ssa Zanella. Può esserci missione senza obiettivo di missione? Nell’analisi dell’identità, il gruppo target destinatario è conditio sine qua non. L’abilità del fundraiser sarà quella di considerarlo individuandolo, studiandolo e collocandolo in modo opportuno attraverso e dandogli la giusta dignità perché oggetto di interesse. Su questo target si costruisce la proposta di valore del progetto sociale. Quindi, la risposta è sì: deve trovare e trova spazio. Non potrebbe essere diversamente perché diversamente il progetto sociale non avrebbe senso e sarebbe difficilmente giustificabile e, infine, sostenibile.
4. La domanda precedente muove anche dal fatto che nei paesi anglosassoni sempre di più si parla non di modelli di fundraising, ma di modelli di funding, ossia modelli più ampi che legano più direttamente problemi di gestione e problemi di finanziamento degli enti non profit [2]. Elena, ragionando più in generale su questa prospettiva più ampia dei modelli di funding, sulla base della tua esperienza sul campo, riscontri delle difficoltà delle organizzazioni a inserire nei modelli di funding anche le fonti di finanziamento “istituzionali” (in primo luogo i fondi dell’UE)? Diverse indagini, alcune discusse anche nel tuo blog, hanno rilevato questa difficoltà. Tu hai riscontrato questa criticità? Hai qualche suggerimento su come cercare di superarla?
Dott.ssa Zanella. Sì, viviamo in uno stadio embrionale. La professione del fundraiser e, più in generale, il fundraising è in via di definizione. Il momento molto delicato, professionalmente parlando, perché poco si conosce e ognuno si fa una propria idea dandone definizioni più o meno edulcorate. Questo crea confusione. Non pretendo naturalmente la ragione ma come molti colleghi parto dalla convinzione che il fundraising sia, in primis, un processo culturale e solo poi uno strumento attraverso il quale raccogliere soldi. Detto questo, per rispondere alla tua domanda faccio un passo avanti: il fundraising non ha ancora trovato una sua dimensione e già c’è bisogno di un fundraising più evoluto, di un fundraising che conosca e gestista, fosse anche indirettamente, la parte finance, la misurazione dell’impatto, l’accesso al credito e la conseguente gestione del debito, il finanziamento con remunerazione di capitale e non solo la contribuzione, ed UE naturalmente. Insomma, tutto si fa più complesso ed è naturale che questo tipo di visione preveda una figura preparata o che sia pronta ad aggiornarsi in modo costante. Senza preclusioni o pregiudizi. Siamo già oltre la tradizione del fundraising.
5. Elena e io tratteremo la questione di come articolare meglio i modelli di funding degli enti non profit e di come integrare la raccolta fondi da privati e quella “istituzionale” in un workshop di due giorni organizzato da Eurosportello, struttura di missione di ConfEsercenti. Il workshop, intitolato “Modelli di funding degli enti non profit: strategie di fundraising e accesso ai fondi europei” si terrà a Firenze il 12 e 13 novembre. E quindi, Elena, vorrei anche chiederti: nel panorama abbastanza articolato di corsi che si tengono su gestione degli enti non profit, raccolta fondi e comunicazione per il non profit, quali sono le aree su cui lavorare maggiormente per arricchire meglio l’offerta formativa per il settore e, certamente, la professionalità degli operatori del settore non profit?
Dott.ssa Zanella. Credo che il project management sia la prima cosa: la capacità di stendere un progetto determina o meno il sostegno di un progetto di missione. Nella mia esperienza, questo è un punto debole, in particolare per le piccole organizzazioni che così facendo si vedono rifiutati progetti anche molto belli. Ma avere un progetto bello non è di per sé sufficiente. Va riempito di contenuti e va valorizzato in modo adeguato. Deve stare in piedi. Essere credibile, replicabile, giustificabile. Ecco, queste attività non si improvvisano. Occorre metodo.
A.B. Grazie Elena. Spero di avere ancora modo di scambiare pareri con te su quella che considero una priorità per gli enti non profit, ossia l’integrazione fra fundraising da privati e fundraising “istituzionale”. E, quindi, spero di poter accogliere ancora le tue considerazioni in merito su questo blog.
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[1] ELENA ZANELLA – Consulente, formatore, blogger. Nella comunicazione e nel
marketing dal 1992. Nel fundraising dal 2003. Blogger dal 2010.
Laurea in Scienze e tecnologie della Comunicazione. Master in Social Entrepreneurship. Socio professionista FERPI. Vincitrice dell’Italian Fundraising Award 2013. Coach al servizio della piccola e media organizzazione non profit, dell’ente pubblico e della PA con il progetto SURF, Start Up di Unità di Raccolta Fondi, dal 2014. Il suo blog Nonprofit Blog è un punto di riferimento per le professioni del terzo settore in Italia. Opinion leader molto attiva sul web, scrive per Vita.it con il blog “La zanzarella” e The Way di Uidu.org. Autrice del libro “Professione fundraiser” edito dalla Franco Angeli.
www.elenazanella.it @elenazanella
[2] Si veda, in particolare: FOSTER W.L.. KIM P., CHRISTIANSEN B. (2009), “Ten Nonprofit Funding Models.” Stanford Social Innovation Review, Spring