“The European union’s Stability and Growth Pact, which sets fiscal rules for its member states, is like the emperor’s new clothes. Almost everyone sees it has none, yet few admit it openly. This disingenuous silence is bad economics and politics.”
Jean Pisani-Ferry [1]
Tendenze regionaliste attuali e processo di integrazione europea
Il recente Rapporto “Dove va l’industria italiana” del Centro Studi Confindustria – rapporto annuale sul sistema industriale italiano, presentato a Milano il 14 maggio scorso – riassume i principali risultati di ricerca in “dieci messaggi” inerenti ai nuovi scenari competitivi internazionali e alle politiche per sostenere il rilancio della crescita economica e della manifattura italiana.
Alcuni di questi messaggi (elencati in fondo al post) dovrebbero far riflettere più pacatamente, dopo i vari slogan propagandistici che hanno preceduto le elezioni del 26 maggio, sull’importanza del processo di integrazione europea. [2]
In particolare dovrebbero essere esaminati con attenzione i seguenti tre messaggi:
• dal multilateralismo al regionalismo;
• rilanciare la domanda interna;
• serve una politica europea per la manifattura.
Il messaggio “dal multilateralismo al regionalismo” dovrebbe far riflettere sul fatto che il processo di integrazione europea, quantunque siano evidenti varie imperfezioni, è più necessario che mai. Per usare le parole dei ricercatori del Centro Studi Confindustria, “multilateralismo e regionalismo hanno attraversato gli anni che vanno dal dopoguerra a oggi intersecandosi continuamente, spesso sovrapponendosi e senza mai realmente alternarsi. La fase attuale vede una nuova accentuazione delle tendenze regionaliste. (v. pagina 9).
In altri termini, non serve di essere esperti di geopolitica o di commercio internazionale per capire che, a fronte dell’inasprimento delle tensioni commerciali fra Cina e Stati Uniti e della crescente importanza nelle “catene del valore” globali dei sistemi produttivi-territoriali (cluster), la capacità di competere si gioca a livello di “aree regionali” e non di singoli paesi (o a livello di singoli territori).
L’ultimo messaggio sulla necessità di “una politica europea per la manifattura”, non a caso, motiva tale necessità affermando in termini lapidari che “l’Europa dovrebbe tendere prima di tutto alla costruzione di un effettivo mercato unico per favorire lo sviluppo di un sistema industriale a scala continentale, per contrastare la concorrenza proveniente dai grandi complessi industriali americani e cinesi” (v. p. 14).
Altrimenti detto, dovremmo fare tutti una riflessione sulla circostanza che gli Stati Membri, singolarmente, non ce la farebbero a tenere la competizione internazionale. Serve “un sistema industriale a scala continentale” e questo deve essere necessariamente indirizzata e coordinata da pertinenti azioni di policy dell’UE.
Il rilancio della domanda interna in Europa
A questo punto serve una lettura più estensiva e articolata del ‘messaggio’ sulla necessità di rilanciare la domanda interna (anche tenendo conto di un altro ‘messaggio’ significativo del Rapporto inerente alla necessità di far ripartire il processo di accumulazione).
Con riferimento al nostro Paese, i ricercatori del Centro Studi Confindustria rimarcano che “il rallentamento del commercio mondiale impone a tutti i sistemi economici di tornare a fare affidamento più che in passato sul mercato domestico. È necessario costruire le condizioni per un aumento della domanda interna, per ottenere il quale occorrono più investimenti pubblici e privati. Ne deriva l’esigenza di un ruolo più incisivo della politica economica”. (v. p. 9).
Questo richiamo sull’importanza delle politiche economiche a sostegno della domanda effettiva andrebbe assolutamente esteso all’intera UE che, nonostante la lunga depressione iniziata nel biennio 2007-2008, continua a richiedere agli Stati Membri di dare priorità a politiche di contenimento della spesa pubblica (austerità fiscale).
E’ questa la vera sfida che hanno di fronte la nuova Commissione che si insedierà in autunno e il nuovo Parlamento Europeo.
Ricordando che il 27 novembre 2018 il Parlamento Europeo ha rigettato l’introduzione nei Trattati del “fiscal compact” (nodo nevralgico delle politiche di contenimento della spesa nell’UE che, pertanto, resta un mero “accordo intergovernativo”), per l’UE è estremamente urgente dare corso a politiche keynesiane espansive, per contenere sia gli effetti negativi del nuovo rallentamento della domanda mondiale sui processi di accumulazione e sulla competitività dell’industria europea, sia le spinte “sovraniste” che si manifestano un po’ in tutti gli Stati Membri.
Il rilancio degli investimenti pubblici, in particolare, dovrebbe vertere su:
• investimenti pubblici che abbiano un valore aggiunto “europeo” (ossia che siano in grado di produrre “esternalità positive” a livello continentale, come nel caso di reti digitali transfrontalieri e dei sistemi intelligenti a rete di accumulazione e trasmissione dell’energia);
• investimenti orientati a contrastare i cambiamenti climatici e a tutelare l’ambiente (rafforzando le iniziative già intraprese dall’UE per consolidare la c.d. “economia circolare”);
• infrastrutture sociali, dal momento che all’inizio del 2018 una task force coordinata da Romano Prodi per l’Associazione europea degli investitori a lungo termine (a cui aderisce anche la Cassa Depositi e Prestiti) ha quantificato in circa 100-150 miliardi di euro all’anno il fabbisogno aggiuntivo di investimenti in campo sociale che dovrebbero essere mobilitati a livello europeo. [3]
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[1] J. Pisani-Ferry; When Facts Change, Change the Pact; Project Syndicate, 29.04.2019.
[2] Il Rapporto, in luogo del canonico titolo “Executive Summary” riservato al capitolo introduttivo e di sintesi, propone il titolo esplicito “Dieci Messaggi”:
I “dieci messaggi” che sintetizzano i contenuti del rapporto sono:
• nel mondo qualcosa è cambiato (ed aggiungo io, per spiegare meglio, è cambiato a livello geopolitico, oltre che in termini di flessione della domanda mondiale);
• dal multilateralismo al regionalismo;
• rilanciare la domanda interna;
• l’Italia continua a rinnovare i settori e i paesi di destinazione dei suoi prodotti;
• la qualità aumenta;
• si seguita a camminare sul fondo;
• far ripartire il processo di accumulazione;
• si riduce e si polarizza il lavoro nella manifattura;
• la manifattura si sta digitalizzando;
• serve una politica europea per la manifattura.
Il 10° messaggio, per motivare la necessità di “una politica europea per la manifattura”, indica anche che “questo stato di cose restituisce un ruolo importante alla politica economica, per lunghi anni relegata al margine delle discussioni sui temi dello sviluppo industriale. Occorre a livello europeo una strategia attiva
di politica industriale che sappia costruire piani di azione e strumenti di intervento, rivitalizzando le istituzioni esistenti e creandone di nuove, e che non si limiti come finora è avvenuto ad agire a livello regolatorio sui soli fattori abilitanti di competitività o sulla concorrenza”. (v. p. 14).
[3] Il c.d. “piano Prodi” per le infrastrutture sociali, presentato a Bruxelles il 23.01.2018, si configura come una sorta di piano complementare al più noto “piano Juncker”. L’intento è quello di delineare una strategia di finanziamento ad hoc volta a contrastare il tendenziale declino degli investimenti materiali nel sistema formativo (dai nidi alle università), nelle strutture sanitarie e nell’edilizia sociale in Europa
Questo declino degli investimenti sociali in Europa è ampiamente rilevato nel rapporto “Boosting investment in social infrastructure in Europe”, elaborato per conto della European Long Term Investment association – ELTI – dalla task force coordinata da Prodi. Il “piano Prodi” stima un fabbisogno di investimenti aggiuntivi di circa 100-150 miliardi di euro entro il 2030, da finanziare attraverso un “Fondo europeo per gli investimenti sociali” a maggioranza pubblica e un ampio ricorso a schemi di finanziamento delle infrastrutture sociali e di esternalizzazione dei servizi pubblici informati al paradigma “payment-by-results”, in primis ai c.d. Social Impact Bonds (SIBs), uno strumento di finanza strutturata assimilabile al “project finance”, ma finalizzato a sostenere gli investimenti in campo sociale.