“A business plan is essentially a research exercise
written in isolation at a desk before an entrepreneur
has even begun to build a product”Steve BLANK, American entrepreneur
and professor at Stanford University
Why the Lean Start-up Changes Everything (2013)
Aree tematiche e azioni prioritarie del FSE 2014-2020: l’importanza delle azioni a sostegno dello spirito imprenditoriale e del lavoro autonomo
Il Fondo Sociale Europeo (FSE) è da un lato uno strumento cardine della politica di coesione dell’UE e, dall’altro, è il principale strumento delle politiche del lavoro (il FSE, infatti, è gestito, secondo il principio di di gestione concorrente dei Fondi dell’UE, dalla DG Employment, Social Affairs and Inclusion della Commissione e dagli Stati Membri).
La politica di coesione per il periodo 2014-2020 sarà contraddistinta da un forte ancoraggio strategico alla strategia Europe 2020 – approvata dal Consiglio Europeo nel giugno 2010 – e alle sue sette Iniziative Faro.
L’approccio strategico alla programmazione dei Fondi Strutturali è caratterizzato dall’approvazione di un documento di orientamento strategico a livello comunitario denominato Common Strategic Framework (CSF).
Il Common Strategic Framework ha la finalità di garantire la massima coerenza possibile fra strategia Europe 2020, le riforme a livello di Stati Membri e gli interventi di policy attuati nei territori (Bonetti 2013).
L’approccio strategico nel ciclo 2014-2020, di riflesso, implica un forte rafforzamento della concentrazione tematica degli interventi dei Fondi Strutturali.
Nelle proposte regolamentari e nella bozza di CSF elaborata dalla Commissione, infatti, vengono indicate 11 aree tematiche prioritarie che dovranno indirizzare la programmazione degli interventi, garantendone la coerenza con le Iniziative Faro di Europe 2020.
Le aree tematiche indicate nel CSF come prioritarie per il FSE sono le seguenti:
- Occupazione e sostegno alla mobilità del lavoro (area tematica 8);
- Inclusione sociale e lotta alla povertà (area tematica 9);
- Educazione, competenze e life-long learning (area tematica 10).
- Rafforzamento della capacità istituzionale e di una amministrazione pubblica efficace (area 11).
Anche nel ciclo di programmazione 2014-2020 i programmi cofinanziati dal FSE saranno strutturati su un reticolo di priorità strategiche dirette e orizzontali (trasversali):
- le priorità dirette (le aree tematiche del FSE già menzionate sopra);
- alcune priorità trasversali comuni a tutte le politiche europee (il passaggio ad un’economia a bassa emissione di carbonio; la promozione delle tecnologie digitali; il rafforzamento della ricerca e delle attività innovative, il sostegno della competitività delle PMI);
- alcune priorità trasversali specifiche al FSE, ossia creazione di partenariati per lo sviluppo (art. 6 della proposta di regolamento FSE, approvata il 20 Novembre dal Parlamento Europeo, in attesa di pubblicazione sulla G.U. dell’UE); promozione della parità di genere (art. 7); lotta a ogni forma di discriminazione (art. 8); sostegno all’innovazione sociale (art. 9); promozione della cooperazione transnazionale (art. 10).
Anche nel nuovo ciclo, inoltre, avranno un peso di rilievo gli interventi volti a sostenere le attività autonome, lo spirito imprenditoriale e la creazione di impresa che, come si evince dalla Figura 1, rientrano in una delle sette Azioni prioritarie dell’area tematica 8.
Figura 1: le Azioni prioritarie dell’area tematica
“Occupazione e sostegno alla mobilità del lavoro”
Questo contributo si sofferma proprio sulle azioni di sostegno al lavoro autonomo e alla creazione di impresa – questione nella fase attuale ampiamente dibattuta a livello europeo e nazionale – con la finalità precipua di sensibilizzare le Amministrazioni regionali e gli stakeholders sulla necessità di dare maggiore peso, nei nuovi POR FSE, sia agli interventi di promozione dell’imprenditorialità sociale, sia alla sperimentazione di nuovi approcci alla creazione di impresa.
Nuovi approcci per sostenere il lavoro autonomo e l’imprenditoria sociale
Stante i vincoli dell’approccio strategico di cui sopra e della normativa europea, a fronte degli effetti molto pesanti della crisi economica sia sul tessuto produttivo sia su quello sociale, ma anche a fronte dei cambiamenti incessanti dei sistemi competitivi globali e dei paradigmi tecnologici, appare auspicabile che tutte le Regioni italiane provino ad impostare il nuovo Programma FSE quale leva di un forte cambiamento sia del paradigma di sviluppo in ogni territorio regionale, sia di alcuni approcci tradizionali al sostegno all’auto-impiego.
Preme evidenziare in merito che le Regioni, nelle more della conclusione del negoziato sui Programmi FSE 2014-2020 con la Commissione, dovrebbero sostenere due linee di azione che, nell’ambito di un contesto di policy italiano che appare un pò ingessato, sembrano davvero rilevanti e innovative:
1. le Regioni dovrebbero, in accordo con i livelli di governo sovra-ordinati, puntare su una articolata strategia a sostegno dell’imprenditoria sociale.
In altri termini, le Regioni non dovrebbero restare abbagliate dall’intenso dibattito, a parere di chi scrive alquanto manicheo, sulle startups digitali e sulla realizzazione di un eco-sistema favorevole per la creazione di impresa nel settore digitale.
L’identificazione dell’imprenditorialità innovativa come quella imprenditorialità che nasce e si consolida nel settore dell’Information & Communication Technology (ICT), come continuano a martellarci alcuni pubblicisti e diversi media, è assolutamente opinabile.
Innovazione si può fare in qualsiasi comparto produttivo e imprese innovative possono nascere e consolidarsi in qualsiasi settore, adottando anche forme legali ibride, quali ad esempio le Community Interest Companies, ampiamente diffuse nel Regno Unito.
Peraltro, non è assolutamente detto che i giovani italiani abbiano davvero motivazioni e “voglia di impresa” solo nell’ambito delle nuove tecnologie e del web 2.0, come dimostrano dati e inchieste inerenti il “ritorno alla terra” di molti giovani, spinti non solo dalla mancanza di lavoro in altri comparti, ma anche dalla volontà di cambiare radicalmente stili di vita e orientamenti valoriali (attenzione per il biologico, tutela delle specie vegetali su scala locale, avvio di fattorie sociali).
Sarebbe opportuno riflettere con pragmatismo, invece, su due questioni su cui non ci si può soffermare oltre in questa sede, ma che appaiono davvero rilevanti, se non dirimenti, per comprendere quanto l’opzione di favorire lo start-up di imprese digitali da parte dei giovani, considerata da diversi pubblicisti avvincente e vincente, possa portare in Italia ad esiti deludenti:
- dal lato dell’offerta, a parte dei problemi strutturali dell’economia italiana che frenano la creazione di impresa (si veda il più recente Rapporto della Banca Mondiale Doing Business 2013), si pone il problema specifico che la maggior parte dei c.d. “giovani nativi digitali” approcciano nuove tecnologie informatiche e apps per smartphones come dei giochi oppure senza avere adeguata contezza di come esse vadano trasformando anche vecchie professioni (si veda, Ministero dello Sviluppo Economico, 2012). Di conseguenza, faticano a “leggervi” delle opportunità di business e, quindi, di creazione di impresa.
Le indagini periodiche dell’OCSE sulle competenze degli studenti (Indagini PISA – Programme for International Students Assessment) e degli adulti (Indagine PIAAC – Programme for International Assessment of Adults Competences), sulle quali si rimanda alle informazioni riportate sui siti http://www.oecd.org/pisa/keyfindings/ e http://www.oecd.org/site/piaac/, peraltro, dimostrano chiaramente come i giovani italiani (e degli adulti) denotino palesi carenze in matematica, logica e materie scientifiche. A fronte di carenze così macroscopiche nel capitale umano dei giovani italiani (anche quelli neo-laureati), appare ampiamente sottostimata, da parte degli apologeti delle startups digitali, la questione della mancanza delle necessarie core competences per lanciare startups di successo nel settore digitale. E’ ben noto, infatti, che le “nuove tecnologie” hanno fortemente ampliato il bagaglio di competenze tacite e codificate che debbono possedere i nuovi imprenditori del XXI secolo; - dal lato della domanda, a parte il calo generale dei consumi che si protrae ormai da diversi anni e che, dall’inizio del 2013, interessa anche smartphones ed altri prodotti elettronici, ci sarebbe da considerare il fatto che la popolazione italiana tende sempre più ad invecchiare. La grande fiducia nell’apertura di nuovi mercati legati ai servizi basati su applicativi multimediali e/o interattivi in Italia, quindi, appare ampiamente mal riposta. Questo per il fatto che una popolazione italiana sempre più anziana incontrerà inevitabilmente delle difficoltà nell’utilizzare con disinvoltura nuovi servizi basati su nuovi software e applicativi per smartphones/tablet, anche quando pensati soprattutto per persone avanti nell’età, quali i servizi di e-health.
Invece, si dovrebbe favorire soprattutto la nascita di nuove unità produttive nei settori dei servizi di cura alla persona e alla comunità (servizi alla persona, servizi di tutela ambientale, servizi nel campo della cultura e altri servizi che contribuiscono a migliorare la qualità della vita). E’ ben noto, infatti, che è in quei settori che si manifesta una domanda sempre più differenziata da parte di singoli cittadini e comunità locali. Tale domanda, spesso, resta inevasa per limiti intrinseci sia al sistema di welfare tradizionale (sovente burocratizzato) sia al sistema delle imprese di mercato. Per tutti, basta citare la annosa questione della mancanza di asili nido o di adeguati servizi di cura per le persone più anziane. Dopo la lunghissima fase di recessione economica, peraltro, certi bisogni insoddisfatti sfociano in vecchie e nuove forme di povertà materiale e disagio sociale.
Infine, preme ricordare che, sovente, è in questi settori dei servizi citati sopra che emergono le esperienze più interessanti e utili di innovazione sociale (si vedano, a tale proposito, i vari casi esemplari presentati nella Guide to Social Innovation della Commissione Europea).
Sempre tenendo conto del dibattito più avanzato su queste tematiche, va rimarcato che queste unità produttive, peraltro, non debbono necessariamente essere identificate in associazioni, cooperative sociali e altre organizzazioni del terzo settore, ma possono anche essere imprese di mercato, nate tuttavia con la finalità di privilegiare la “missione” e i risultati sociali della loro attività, rispetto ai risultati economici, secondo il modello di “social business” delineato dal premio Nobel Yunus (2007).
Anche la Commissione Europea, peraltro, sta indirizzando la stessa politica industriale comunitaria verso un maggior sostegno a forme di imprenditoria alternativa (organizzazioni senza scopo di lucro, imprese sociali e “social businesses” à la Yunus), capaci di combinare obiettivi economici e sociali, attraverso la Social Business Initative (SBI), lanciata nel novembre 2011 dalla Commissione Europea.
Con riferimento alla “social innovation“, le Regioni italiane potrebbero, in una prospettiva di benchmarking, fare tesoro dell’interessante percorso di capacity building e di programmazione partecipativa che, su questo tema, sta portando avanti la Regione Sicilia, ampiamente presentato sul sito http://www.euroinfosicilia.it/innovazione-sociale/.
In Italia sono piuttosto attivi sui temi “social innovation” e “creazione di impresa sociale” il Centro Studi POLITEIA (in Basilicata) e il think tank ASVI Social Innovation Lab (nel Lazio).
Si distingue per l’ampio dibattito su questi temi e su approcci innovativi per la creazione di impresa anche il Gruppo LinkedIn “Social Startup Italia“;
2. in sede di implementazione di iniziative di sostegno alla nascita di nuove imprese, si dovrebbe rivedere il modello generalmente adottato nell’ambito della programmazione FSE, che può essere sintetizzato con il processo “a cascata” riportato nella Figura 2.
Figura 2: approccio tradizionale alla creazione di impresa nella programmazione FSE
In alternativa a questo modello, ampiamente discutibile, in cui la formulazione del business plan costituisce una autentica pietra angolare del processo di creazione di impresa, si dovrebbero adottare, in alternativa, approcci/metodi più “leggeri”, secondo tre direttrici:
i. adottare l’approccio lean start-up, dopo aver maturato la consapevolezza che un business plan, anche qualora corroborato da analisi rigorose (in primis quella di mercato) può risultare alla prova dei fatti (“alla prova del mercato”) fallace. Questo approccio, i cui principali esponenti sono Steve Blank (2005, 2013) ed Eric Ries (2011), si fonda, inter alia, sulla esperienza concreta dei cosiddetti “imprenditori seriali” nel comparto informatico e delle telecomunicazioni della Silicon Valley. Tali imprenditori lanciano sul mercato diverse startups (sovenete come spin-off dell’Università di Stanford o di altre aziende del settore ICT già affermate), favoriti dal particolare clima “competitivo-cooperativo” che caratterizza il sistema produttivo locale (fra i vari contributi in merito, si veda, Saxenian 1994). Sovente, grazie al successo di una sola di queste, essi ripagano i costi di quelle che, invece, falliscono. L’approccio lean start-up, in alternativa alla lunga fase di pianificazione strategica e finanziaria che porta alla formulazione definitiva del business plan conferisce un ruolo decisivo alla fase di market discovery (o meglio, per usare le parole di Blank, alla fase di “customer development“). Il presupposto logico, in altri termini, è che una idea innovativa va “portata sul mercato” e sarà sulla base dei risultati – eventualmente anche fallimentari – di mercato, che quella idea dovrà essere corretta, adattata e, se del caso, riproposta ex novo;
ii. adottare un approccio alternativo alla definizione del piano strategico e del “modello di business”, in grado di valorizzare maggiormente tanto “capacità di visione”, creatività e “core competences” dell’imprenditore (o dell’impresa), quanto una adeguata identificazione dei vantaggi effettivi della “proposta di valore” per la clientela (o, come si potrebbe anche affermare, della capacità di “fare la differenza” per i beneficiari finali di quel progetto particolare che è una impresa).
Tale approccio è il Business Model Canvas, delineato soprattutto da Osterwalder e dai suoi collaboratori (2005, 2010), che individua quattro “macro aree” intorno alle quali definire il modello di business:
- infrastruttura (risorse chiave, attività chiave, partners chiave),
- offerta di valore per la clientela (benefici materiali e immateriali),
- clientela (gruppo target, relazioni con il target, canali di distribuzione),
- fattibilità finanziaria.
Tale approccio, peraltro, valorizza ampiamente tecniche di visual thinking e può essere facilmente integrato, aggiungendo alle “macro aree” di cui sopra una “macro area” volta a inserire nel modello le variabili relative all’impatto sociale e ambientale (Moscatelli, Supino 2012). Maggiori delucidazioni su questo modello si possono trovare in vari siti e blog internazionali, che, soprattutto dopo la pubblicazione di “business model generation” nel 2010, sono ormai autentiche “comunità di pratiche”, quali:
- http://www.marsdd.com/entrepreneurs-toolkit/workbooks/
- http://www.businessmodelgeneration.com
- http://businessmodelhub.com
In merito a queste notazioni sulla maggiore semplicità del Canvas e sulla sua capacità di valorizzare maggiormente la creatività e la “visione” de neo-imprenditori, va anche aggiunto che il business plan convenzionale, specialmente nella fase attuale di crisi economica e di “credit crunch”, non sembra destinato ad assolvere adeguatamente quella che dovrebbe essere la sua funzione principale, ossia convincere i potenziali finanziatori (in primis le banche) a fornire i necessari finanziamenti per l’avvio di impresa. Questo vale in particolare per giovani neo-imprenditori e per le imprese senza scopo di lucro (siano esse organizzazioni del terzo settore o “social businesses” à la Yunus), a causa delle specificità delle loro strutture proprietarie e patrimoniali.
Le Regioni, pertanto, in sede di implementazione delle azioni di sostegno all’auto-impiego dovrebbero proporre ai potenziali nuovi imprenditori, come strumento di pianificazione di impresa, anche il Business Model Canvas, insieme o in alternativa al modello più tradizionale di business plan;
iii. valorizzare tecniche di pianificazione strategica basate sul visual thinking (Osterwalder, Pigneur 2010, Sibbet 2012), sulla creatività e sul c.d. “design driven” di modelli di business e di prodotti/servizi (Florida 2003, Verganti 2009, Kimbell 2010, Commissione Europea 2012b, De Brabandere, Iny 2013).
Tali tecniche sono volte a valorizzare tanto la capacità di “visione” e la creatività dei designers quanto il punto di vista degli utilizzatori finali delle tecnologie e/o dei fruitori dei servizi, consentendo così di passare da un approccio “value-in-exchange” a un approccio “value-in-use” (Kimbell 2010).
Preme evidenziare che la “design driven innovation” è ormai parte del set di strumenti che la Commissione si è data negli anni recenti per rinnovare la politica industriale europea.
L’importanza di tale approccio era già stata enfatizzata nella Comunicazione di lancio dell’Iniziativa Faro “Innovation Union” (Commissione Europea 2010). Poi nel 2011 il Commissario Tajani (DG Industria e Imprese della Commissione Europea) aveva lanciato la European Design Innovation Initiative volta a tratteggiare i legami fra l’applicazione dell’approccio tipico dei “creativi” al design dei prodotti anche ai servizi, ai processi di innovazione e alle stesse politiche pubbliche e il rilancio della competitivà economica del sistema produttivo europeo. Le attività della DG Industria e Imprese e del Gruppo di esperti costituito ad hoc hanno condotto alla stesura della prima bozza del Piano di Azione per la Design Driven Innovation .
E’ auspicabile che le Regioni italiane traggano anche da questo Piano idee innovative su come reimpostare gli interventi a sostegno del lavoro autonomo e dell’imprenditorialità giovanile, attraverso l’applicazione dell’approccio “design driven” e del visual thinking alla pianificazione strategica.
Bibliografia
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