‘A key objective of rural policy should be to increase rural competitiveness and productivity in order to enhance the social, economic and environmental well-being of rural areas’
OECD, Rural 3.0 (2018)
Nel corso del 2018, come ricordato nel post del 20.08.2018 “Il dibattito sull’approccio place-based alle politiche strutturali di sviluppo”, due pregevoli contributi teorici di rango istituzionale hanno riaffermato l’importanza dell’approccio “basato sui luoghi” (“place-based approach”) per la formulazione delle politiche strutturali di sviluppo:
• il Policy Note “Rural 3.0. A framework for rural development” dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE o OECD dal nome inglese), presentato all’11esima Conferenza dell’OCSE sullo sviluppo rurale (Edimburgo, 11 e 12 Aprile 2018);
• il report “Rethinking Lagging Regions. Using Cohesion Policy to deliver on the Potential of Europe’s Regions” della Banca Mondiale.
Il Policy Note “Rural 3.0. A framework for rural development” puntualizza che il paradigma 3.0 presentato nel 2018, in verità, costituisce un raffinamento del ‘New Rural Paradigm’ sottoscritto dai paesi OCSE nel 2006 e, al tempo stesso, uno strumento per attuare meglio il ‘New Rural Paradigm’.
Il paradigma 3.0, in particolare, tiene conto di quattro cambiamenti significativi nelle aree rurali e nelle relative politiche di sostegno:
• tutte le regioni – piccole e grandi – si caratterizzano come sistemi socio-economici sempre più diversificati e complessi;
• tutte le varie politiche pubbliche sono sempre più interdipendenti fra di loro e, quindi, appare sempre meno applicabile un semplicistico approccio settoriale;
• la crescente disponibilità di dati sempre più disaggregati e il miglioramento degli approcci analitici consentono di capire meglio caratteristiche specifiche e complessità delle varie aree territoriali;
• si registra una crescente interdipendenza fra città ed aree rurali (aree, quest’ultime, che è sempre più sbagliato considerare come aree omogenee).
Il nuovo paradigma, inoltre, tiene conto di alcune “lezioni dell’esperienza” emerse dalle analisi delle politiche attuate nel passato a livello internazionale:
• l’obiettivo ultimo delle politiche di sviluppo rurale dovrebbe essere il well being degli abitanti delle zone rurali, in quanto è opportuno non solo puntare su una maggiore competitività di queste aree (dimensione economica dello sviluppo dei territori), ma anche sul rafforzamento della dimensione sociale e di quella ambientale;
• le politiche dovrebbero tenere maggiormente conto dei fattori chiave della struttura competitiva di queste aree, che sono condizionate da: (i) distanza dai mercati principali; (ii) forte influenza di fattori esterni sulla loro competitività; (iii) concentrazione delle attività produttive in pochi settori e in segmenti di produzione a minore valore aggiunto; (iv) presenza di “vantaggi comparati” fortemente legati a varietà del capitale naturale, capitale paesaggistico e tradizioni locali distintive da valorizzare in chiave turistica e (v) relativamente modesta disponibilità di forze di lavoro attive, a causa della tendenza all’emigrazione dei giovani verso aree economiche più dinamiche;
• le politiche più efficaci sono quelle che adottano un approccio multi-settoriale e che utilizzano più strumenti di intervento;
• la combinazione di più strumenti di intervento dovrebbe essere dosata sulla base di caratteristiche strutturali ed esigenze specifiche delle diverse tipologie di aree rurali (dal momento che è ormai assolutamente inaccettabile continuare a pensare che tutte le aree rurali sono uguali). [1]
Alla luce dei cambiamenti nei contesti rurali di cui sopra e delle “lezioni dell’esperienza” appena elencate, le politiche di sviluppo rurale dovrebbe mettere definitivamente alle spalle l’approccio di breve termine ed eminentemente settoriale del passato e puntare sulla creazione, a livello locale, di condizioni di contesto favorevoli alla valorizzazione del potenziale di sviluppo di ciascuna area rurale. Alla luce delle particolari esigenze e degli asset specifici delle aree rurali, le politiche dovrebbero essere focalizzate su capitale umano, infrastrutture e innovazione – che sono fattori che agiscono da catalizzatori dei processi di sviluppo – piuttosto che sulla protezione di strutture di potere e produttive esistenti.
Le politiche, pertanto, dovrebbero parimenti ampliare il novero dei portatori di interesse da coinvolgere e indirizzare gli interventi su una platea più ampia di potenziali beneficiari.
Per quanto concerne gli strumenti di intervento, le politiche di sviluppo rurale nella fase attuale dovrebbero dismettere il ricorso quasi esclusivo ad incentivi finanziari e servizi reali per i produttori agricoli del passato ed usare in modo combinato più strumenti di policy, anche afferenti a diversi domini delle politiche pubbliche. In particolare, il recente contributo dell’OCSE ribadisce l’importanza di privilegiare un approccio bottom up e di formulare delle strategie di sviluppo locale integrate, adatte alle caratteristiche specifiche delle varie aree rurali. [2]
Pertanto, gli interventi combinati di diverse politiche settoriali nelle aree rurali, dovrebbero:
• essere sempre meno orientate a sostenere direttamente il reddito degli operatori agricoli e ad usare sussidi e, di converso, sempre più attente alla “multi-funzionalità”, alla valorizzazione delle risorse locali e alla promozione di investimenti territorialmente integrati;
• essere adeguatamente combinati e bilanciati, in modo da tenere conto delle caratteristiche strutturali e degli specifici fabbisogni delle diverse aree rurali;
• superare divisioni amministrative nei sistemi di governance e compartimentalizzazione degli strumenti in specifici ambiti di policy e, al tempo stesso, favorire il dialogo fra più livelli di governo e fra i vari decisori pubblici locali;
• tenere maggiormente conto sia dell’eterogeneità delle aree rurali, sia della crescente complessificazione delle relazioni fra le aree rurali e quelle urbane. [3]
La Figura 1 posta sotto riassume i tratti distintivi dell’approccio 3.0 alle politiche di sviluppo rurale perorato dall’OCSE.
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[1] L’OCSE ha sviluppato una tassonomizzazione di tutte le regioni (unità territoriali geografiche) che presta grande attenzione alla varietà di aree rurali, organizzata come segue:
• tutte le unità geografiche all’interno dei paesi membri (Territorial Level 1) sono distribuite su due livelli (grandi regioni – Territorial Level 2 – e piccole regioni – Territorial Level 3);
• le piccole regioni (Territorial Level 3 o TL3) sono distinte in (i) regioni prevalentemente urbane, (ii) regioni intermedie; (iii) regioni prevalentemente rurali;
• le aree rurali vengono distinte fra regioni rurali vicine alle città e regioni rurali remote;
• le aree rurali, grazie al concetto di “aree funzionali” (ben distinto da quello di aree amministrative), vengono parimenti classificate in (i) aree rurali all’interno di un’area funzionale urbana, (ii) aree rurali prossime a un’area funzionale urbana, (iii) aree rurali remote.
[2] Già dal “New Rural Policy Paradigm” del 2006 l’OCSE tiene ampiamente conto del più generale ripensamento delle politiche strutturali di sviluppo, avviato già nel corso degli anni Novanta. Il ripensamento di quegli anni delle politiche territoriali è dettato dalla modesta efficacia delle politiche settoriali top-down degli anni precedenti e dalla crescente domanda di “de-localizzazione” della gestione delle politiche verso il basso (per tutti, si vedano: PIKE A., RODRIGUEZ-POSE A., TOMANEY J. (2006), Local and Regional Development, Routledge, London; PIKE A., RODRIGUEZ-POSE A., TOMANEY J. (2017), Shifting Horizons in Local and Regional Development, Regional Studies, Vol. 51, n. 1).
Il nuovo paradigma dell’approccio bottom up è ben sintetizzato dalla Figura 2 che segue.
Una siffatta impostazione delle politiche territoriali (segnatamente di quelle a sostegno dello sviluppo rurale), peraltro, è quella fatta propria implicitamente dal Parlamento Europeo (PE) in un rilevante (e ponderoso) studio – Research for Agri Committee. CAP Reform post 2020. Challenges in Agriculture – datato ottobre 2016.
Tale studio, che era stato elaborato in vista di un importante workshop del Comitato sull’Agricoltura e sullo sviluppo rurale che si è tenuto l’8 novembre 2016, nelle conclusioni sugli interventi a sostegno dello sviluppo rurale, invita a:
• rafforzare e qualificare meglio la funzione sociale della PAC (rafforzandone la rilevanza anche rispetto agli altri obiettivi propri della “multi-funzionalità”, ossia gli obiettivi di tutela ambientale e territoriale);
• potenziare gli interventi di sensibilizzazione, informazione e capacity building (definiti misure di supporto “soft” nello studio), specialmente nelle aree più deboli
• adottare più esplicitamente un approccio “basato sui luoghi” (“place-based” development) per definire l’intera struttura dei Programmi di Sviluppo Rurale (nazionali e regionali). Questo soprattutto in relazione a quelle aree – in Italia si parla di “aree interne” – che sono maggiormente a rischio di precipitare ulteriormente in drammatici “circoli viziosi” per cui dinamiche di marginalizzazione economica e sociale e spopolamento si rafforzano a vicenda.
Questo studio, pertanto, richiede di rafforzare l’approccio “basato sui luoghi”, anche oltre la dimensione CLLD/LEADER dei Programmi di Sviluppo Rurale (PSR).
[3] Sulla dimensione “funzionale” delle ripartizioni territoriali e sui legami sempre più articolati fra città e aree rurali vi è grande attenzione anche da parte del Parlamento Europeo. In merito al tema “rural-urban gap” si veda il contributo del Servizio di ricerca del Parlamento Europeo (EPRS) “Bridging the Urban-Rural divide. Rural-Urban partnerships in the EU”, che richiama anche le indicazioni di un precedente studio dell’OCSE del 2013: OECD (2013), Rural-Urban Partnerships. An integrated approach to economic development, OECD Publishing, Paris.