“Start-ups are not smaller version of large companies.
They do not unfold in accordance with master plans.
The ones that ultimately succeed go quickly from failure to failure”
Steve Blank (2013)
Nei due precedenti articoli, prendendo le mosse dall’esame delle possibili tipologie di interventi finanziati dal Fondo Sociale Europeo (FSE), ho posto in evidenza la necessità di una riflessione più approfondita sull’importanza di rafforzare gli interventi che si possono far ricadere nell’ambito della c.d. “educazione all’imprenditorialità” e di quelli a sostegno della creazione di impresa.
In particolare, in merito all’educazione all’imprenditorialità ho evidenziato che in Italia, fin qui, si tende a vedere nei progetti di educazione all’imprenditorialità delle iniziative formative volte a dotare i beneficiari di capacità manageriali e altre competenze utili per creare e gestire un’impresa.
La finalità dei progetti di educazione all’imprenditorialità, invece, è solo in parte questa. [2]
Tali progetti, infatti, dovrebbero essere orientati non tanto a formare dei potenziali “manager” e ad illustrare le modalità di creazione di impresa, quanto a sviluppare nei beneficiari una mentalità imprenditoriale (utile in qualsiasi fase della vita e quale che sia l’impiego di un individuo) per una serie di motivazioni che ho già brevemente esposto nel precedente post del 20 dicembre 2019. [3]
I contenuti di questi progetti, peraltro, andrebbero adeguatamente differenziati a seconda dei possibili “gruppi target”. A mio parere non ha molto senso proporre per degli adolescenti delle classi seconde o terze della scuola secondaria di I grado delle attività di educazione all’imprenditorialità con la finalità ultima di formulare e simulare i processi di creazione di impresa. L’educazione all’imprenditorialità rivolta ai giovani in età adolescenziale andrebbe considerata come uno strumento per migliorare la loro capacità di assumersi responsabilità, affrontare decisioni complesse e sviluppare una mentalità pro-attiva ed aperta al rischio. [4]
Avrebbe maggiormente senso, invece, “avvicinare” i percorsi di educazione all’imprenditorialità a quelli più tradizionali di sostegno alla creazione di impresa nel caso di adulti che hanno perduto un precedente impiego e tentano di ricollocarsi sul mercato del lavoro quali lavoratori autonomi, oppure nel caso di neo-laureati che vogliano avviare delle start-up.
In sede di formulazione di tali progetti, quindi, si dovrebbe in primo luogo segmentare adeguatamente i possibili gruppi target, distinguendo almeno quattro “gruppi” di potenziali beneficiari:
• studenti in età adolescenziale coinvolti in percorsi di educazione all’imprenditorialità in scuole secondarie di I grado o in scuole secondarie di II grado (siano esse licei, istituti professionali o istituti tecnici); [5]
• studenti (maggiorenni) che seguono percorsi di alta formazione e/o neo-laureati;
• adulti che vogliano avviare una attività autonoma (siano essi adulti che vogliano lasciare il loro impiego alle dipendenze o lavoratori che hanno perduto una precedente occupazione);
• individui che per motivi vari si collocano ai margini dei circuiti lavorativi e sono a forte rischio di esclusione sociale.
Come ho evidenziato in diversi precedenti post degli ultimi mesi, in vista della programmazione degli interventi finanziati dal “nuovo” Fondo Sociale Europeo Plus (FSE Plus) nel periodo 2021-2027 servirebbe una riflessione più approfondita sui progetti di educazione all’imprenditorialità:
• realizzati all’interno di scuole secondarie di I grado e di II grado, appunto per il fatto che in Italia si tende un po’ troppo a considerarli alla stregua di percorsi di sostegno (percorsi formativi) per la creazione di impresa; [6]
• realizzati a favore di individui a forte rischio di marginalità sociale, per i quali non solo è plausibile ipotizzare una maggiore difficoltà di accesso alle informazioni e alle conoscenze giuridiche necessarie per avviare una impresa, ma è anche ampiamente assodato che incontreranno forti difficoltà di accesso al credito (gli individui a rischio di marginalità sociale quasi per definizione sono considerati “non bancabili”, ossia non meritevoli di ottenere capitale di credito dalle istituzioni finanziarie convenzionali). Per questi individui, l’avvio di una attività autonoma in molti casi è, da un lato, quasi una scelta obbligata per poter trovare un impiego e, dall’altra, una importante occasione di riscatto sociale (e, quindi, sono in genere fortemente motivati). Si tratta di individui che, peraltro, hanno dovuto sviluppare elevate capacità di resilienza. Per i soggetti svantaggiati, pertanto, non si tratta tanto di lavorare sulle attitudini e sulla capacità di resilienza, bensì di lavorare maggiormente sulle competenze orizzontali degli “imprenditori” ed anche sulle conoscenze specifiche necessarie per avviare una impresa. In estrema sintesi, nel caso dei soggetti a rischio di esclusione sociale da un lato è accettabile che i percorsi di educazione all’imprenditorialità, de facto, si sovrappongano a percorsi più convenzionali di sostegno alla creazione di impresa e, dall’altro, è necessario tenere conto del fatto che vi è il forte rischio che le loro neo-imprese siano maggiormente a rischio al momento di “attraversare il burrone”. [7]
Queste considerazioni sono certamente opinabili, anche per il fatto che sono il portato di un percorso personale di apprendimento su educazione all’imprenditorialità e processi di creazione all’impresa ancora in divenire. Ciò che invece vorrei assolutamente ribadire è che il vecchio modello generalmente adottato nell’ambito della programmazione FSE (e anche da incubatori di impresa e centri servizi avanzati alle imprese più tradizionali) per sostenere la creazione di impresa appare ampiamente discutibile e da riformulare (si veda il post del 10 dicembre scorso).
Qui confermo che:
• nei progetti di sostegno alla creazione di impresa andrebbero inserite delle attività preliminari di educazione all’imprenditorialità, in cui si lavori maggiormente sulle attitudini dei beneficiari, sulle competenze orizzontali dei potenziali neo-imprenditori e sulla loro propensione a cooperare e fare rete;
• questi progetti dovrebbero essere completamente ripensati ed essere informati a principi e strumenti di lavoro dell’approccio “lean start-up” alla creazione di impresa, progressivamente affermatosi a livello internazionale negli ultimi quindici anni grazie ai contributi seminali e alle attività di disseminazione di Steve Blank ed Eric Ries.
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[1] Blank S. (2013), Why the Lean Start Up Changes Everything, Harvard Business Review, May 2013.
[2] Sono molto significativi, in merito, i seguenti articoli:
- Wolverson R. The Dream Factories. A New Kind of Education Targets: Would-Be Entrepreneur; Time Magazine; 25.03.2013.
- Ferreira C. (2018); 6 Things Business School Won’t Teach You About Entrepreneurship; Entrepreneur Online Magazine; 13.03.2018.
[3] Si ricorda che il tema dell’educazione all’imprenditorialità costituisce un item importante anche nella strategia dell’UE per favorire il miglioramento della qualità dell’istruzione e delle competenze “orizzontali” e “verticali” dei cittadini europei sin dal varo nel 2006 della c.d. “agenda di Oslo”. L’agenda in questione muove e prende il nome dalla Conferenza di Oslo del 26 e 27 ottobre 2006 (Conferenza “Entrepreneurship Education in Europe: Fostering Entrepeneurial Mindstets Through Education and Learning”).
Negli ultimi dieci anni almeno due documenti elaborati su mandato dell’UE hanno confermato autorevolmente sia l’importanza sia la natura multidimensionale dei processi di educazione all’imprenditorialità. Si fa riferimento a:
• il documento con le conclusioni del “Gruppo tematico sull’educazione all’imprenditorialità”, che era stato istituito nel novembre 2011 dalla Commissione. Il Gruppo tematico aveva individuato quale oggetto distintivo dei progetti di educazione all’imprenditorialità «lo sviluppo nei discenti delle competenze e della mentalità necessarie a far sì che possano trasformare idee creative in azioni imprenditoriali. Si tratta di una competenza chiave per tutti i discenti, di supporto allo sviluppo personale, alla cittadinanza attiva, all’inclusione sociale e all’occupabilità. Essa è importante in tutto il processo di apprendimento permanente, in tutte le discipline di studio e per tutte le tipologie di istruzione e formazione (formali, non formali e informali) che contribuiscono a creare uno spirito o un comportamento imprenditoriale, con o senza un obiettivo commerciale»;
• la nuova Raccomandazione sulle “competenze chiave per l’apprendimento permanente”, rilasciata il 22 maggio 2018 dal Consiglio dell’Unione Europea – che inserisce fra le otto competenze-chiave anche la “competenza imprenditoriale”.
[4] A livello di UE e di altri Paesi europei, sovente, è ben diverso il modo di approcciare il tema dell’educazione all’imprenditorialità. Sono significativi, in questa luce, due progetti di ricerca finanziati dall’UE con i fondi per sostenere la R&ST del Programma Horizon 2020 che hanno per oggetto l’innovazione sociale nel sistema educativo:
• DOIT – Entrepreneurial skills for young social innovators in an open digital world;
• NEMESIS – Empowering the changemakers of tomorrow (l’acronimo NEMESIS sta per “Novel Educational Model Enabling Social Innovation Skills”).
In ambedue questi progetti – in particolare in DOIT – viene rimarcata l’importanza di sviluppare nei giovani soprattutto tutta una serie di competenze “orizzontali” e una forte propensione all’assunzione di responsabilità sociale anche attraverso l’educazione all’imprenditorialità. Anche tramite questa, infatti, si possono formare i giovani a un ruolo attivo di innovatori sociali.
[5] Il mio parere, infatti, è che obiettivi di fondo e contenuti dei progetti di educazione all’imprenditorialità andrebbero adeguatamente tarati sulle esigenze formative specifiche e sulle attitudini di giovani adolescenti ancora impegnati nell’assolvimento dell’obbligo formativo e su quelle di giovani iscritti alle scuole secondarie di II grado e/o in attività di formazione professionale o di apprendistato.
[6] A tale riguardo preme evidenziare che segnali di una maggiore attenzione alle molteplici dimensioni dell’educazione all’imprenditorialità sono arrivati autorevolmente dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) nel 2018 e nel 2019, come evidenzierò nel prossimo post del 20 gennaio.
[7] Come è noto l’avvio di una nuova impresa è solamente il primo step. La vera sfida per quella neo-impresa – usando una felice espressione di Geoffrey Moore – è “attraversare il burrone” e mettere radici nel mercato di riferimento. Moore G. (2003), Attraversare il burrone. Promuovere e vendere prodotti high-tech al cliente del largo mercato, Franco Angeli, Milano (ed. originale 1991).