Uno spettro si aggira nel mondo della solidarietà organizzata italiana: si chiama valutazione d’impatto sociale. Tutti ne parlano e la cercano. Riescono anche a trovarla le organizzazioni non profit italiane? E, aspetto molto critico, quanto hanno paura della valutazione di impatto sociale?
Ne parliamo con il collega del Fundraising Virtual Hub (FVH) Christian Elevati, esperto di riferimento del nostro network su questo tema. [1]
Christian, grazie per avermi concesso l’onore di pubblicare una tua intervista sul blog. Spero di averti ancora ospite in futuro, per approfondire meglio questo argomento. [2]
Prima di entrare nel merito, un paio di domande inerenti il nuovo approccio di Quadro Logico adottato dall’agenzia della Commissione Europea EuropeAid per la formulazione dei progetti di sviluppo da candidare per l’accesso ai finanziamenti comunitari per la cooperazione con paesi terzi più arretrati. Ricordo ai nostri lettori che sei il curatore di una pregevole “guida alla lettura” del nuovo Quadro Logico di Europe Aid disponibile sul portale Info Cooperazione. [3]
D1. Alcuni osservatori descrivono il nuovo Quadro Logico come un passo avanti verso una più articolata descrizione dei progetti informata alla c.d. “Theory of Change”. Altri sono dell’avviso che sia solo un ulteriore irrigidimento di uno strumento già di suo troppo rigido, specialmente per quei progetti che durano 24 o 36 mesi. Qual è il tuo parere?
R1. Credo innanzitutto che i cambiamenti, all’inizio, generino sempre spaesamento. Anche l’introduzione del Project Cycle Management (PCM) provocò reazioni simili, ma da anni è ormai divenuto una metodologia imprescindibile e ampiamente utilizzata, pur con i suoi limiti. Certo, la Commissione Europea si è mossa senza consultare anticipatamente gli stakeholders, il che ha influito significativamente sulla diffidenza che ha generato questa innovazione, in particolare nel mondo delle ONG. Inoltre, la Commissione ha agito in modo alquanto frettoloso. Prova ne è l’incoerenza fra manuali e documenti di riferimento, sia perché non aggiornati rispetto al nuovo Logical Framework, sia perché sono emerse differenze fra le versioni nelle 3 lingue comunitarie, sia perché le Delegazioni-Paese hanno fornito spesso interpretazioni differenti a chi chiedeva loro lumi sul nuovo strumento. Sono comunque convinto che si tratti di una fase transitoria e che entro la metà del 2017 EuropeAid risolverà tutte queste incoerenze. Sono altrettanto certo che uno spostamento verso un approccio più attento agli outcomes e alla misurabilità dell’impatto (il nuovo Quadro Logico è anche un ottimo strumento per il monitoraggio delle attività e si presta ad essere aggiornato in corso d’opera) piuttosto che agli outputs sia assolutamente necessario. Qui sotto è possibile vedere uno schema dell’evoluzione del Quadro Logico – fonte: CONCORD Europe, How to write a proposal for DEVCO funding?, 2016 – dal 2014 a oggi.
In Italia manca una cultura diffusa e radicata sulla valutazione d’impatto (anche in presenza di numerose eccellenze). La mutuiamo dai Paesi anglosassoni (penso in particolare a DFID e USAID), ma l’argomento è certamente di attualità e l’interesse rispetto a questo tema crescente.
D2. Vorrei tornare sul tema dell’aggiornamento della manualistica di EuropeAid di riferimento. A poco più di un anno dal varo di questa nuova versione del Quadro Logico di EuropeAid, a che punto siamo?
R2. Quello che mi risulta al momento della presente intervista è che alcune incoerenze siano state rapidamente risolte con la pubblicazione della versione 2016 del PRAG. Penso in particolare alle differenze fra le versioni in lingua Francese e Spagnola e quella Inglese rispetto ad alcuni termini chiave come results e outputs. Altre specifiche sono arrivate con i testi dei bandi, di volta in volta pubblicati. Vi sono ancora incoerenze per chi ha presentato proposte prima dell’uscita del PRAG 2016 relativamente alla presenza dei vecchi expected results nella sezione dedicata alla Concept Note (mancano totalmente outcome e outputs e i riferimenti alla possibilità di inserire outcomes intermedi). Ma soprattutto – e questa ritengo sia la questione centrale – non mi risulta la pubblicazione di una versione aggiornata del PCM, fermo al 2004, che potrebbe effettivamente risolvere la stragrande maggioranza delle incoerenze di cui stiamo parlando, oltre che mostrare come il nuovo Quadro Logico in realtà presupponga un lavoro sviluppato nell’ottica della Theory of Change già in fase di Programmazione e di Ideazione di un progetto, prima ancora che di Formulazione e di Monitoraggio & Valutazione. In effetti, il nuovo Quadro Logico è solo uno strumento di progettazione e monitoraggio, che prende il suo pieno significato solo se inserito in un processo più ampio di definizione e misurazione dell’impatto. Nel frattempo, per farsi un’idea più dettagliata delle novità, delle questioni ancora aperte e di come affrontarle, può tornare utile, oltre al vademecum che ho curato e che citavi poco sopra, anche il recentissimo manuale e i relativi allegati pubblicati da CONCORD Europe (2016) per progetti in ambito DEVCO, disponibile qui (e da cui ho ricavato la tabella sopra riportata): http://concordeurope.org/2016/09/20/funding-guidelines-devco-application/.
Per quel che concerne la valutazione di impatto sociale, vorrei farti alcune domande abbastanza accessibili per tutti, evitando tecnicismi.
D3. La mia impressione è che nei paesi anglosassoni, dove in pratica si parla da sempre di valutazione dei progetti, si siano diffusi approcci/strumenti per la valutazione di impatto sociale dei progetti (anche quelli nel campo dei servizi umani e sociali) eccessivamente sbilanciati sulla performance economica-finanziaria e che fanno il verso ad approcci e strumenti di corporate finance. E’ il caso dell’IRIS (Impact Reporting and Investment Standards) e, a maggior ragione, dello SROI (Social Return On Investment). Condividi questa posizione o no? In merito, cosa ci puoi dire a proposito del dibattito che si sta sviluppando nel nostro paese?
R3. La domanda è estremamente complessa e ritengo sia impossibile rispondere senza distinguere la tipologia di organizzazione di cui stiamo parlando: cosa significa valutare l’impatto di un’impresa sociale? E di una B-corp? Di una ONLUS che lavora in Italia? Di una ONG di cooperazione internazionale? Anche la tipologia di progetti è cruciale: stiamo parlando di interventi di sviluppo di medio-lungo periodo? Di interventi di emergenza? Di sostegno a start-up sociali? Per alcune di queste realtà o tipologie di progetti, la performance economico-finanziaria risulta particolarmente rilevante, per altre molto meno, in alcuni casi per nulla.
Tutto ciò si collega intrinsecamente alla relazione fra indicatori qualitativi e quantitativi. Generalmente parlando, la migliore soluzione è un mix dei due, il cui peso reciproco va naturalmente valutato caso per caso. D’altro canto, non tutto è monetizzabile. Un progetto di impresa sociale dovrebbe essere in grado di produrre anche ricavi economici fondamentali alla sua sostenibilità (prima ancora che ai dividendi dei finanziatori, comunque possibili nel medio lungo periodo). Vi sono inoltre progetti che consentono importanti risparmi dal punto di vista della spesa pubblica nell’ambito delle politiche di Welfare (e qui lo SROI può fornire indicazioni importanti, se basato su proxies attendibili). Ma poi vi sono i cosiddetti “asset immateriali” (per es: “il livello di inclusione sociale dei migranti” o “il tasso di alfabetizzazione”) in relazione ai quali parlare di performance economico-finanziaria risulta limitante, quando non fuorviante. Credo d’altro canto che tutto sia valutabile, anche in modo rigoroso, e che sia necessario farlo, per chi implementa i progetti prima ancora che per chi li finanzia. Non vi è alcuna possibilità di sapere se si stanno effettivamente raggiungendo gli obiettivi di miglioramento perseguiti senza un sistema rigoroso e trasparente di valutazione dell’impatto. E nemmeno di correggere il tiro in corsa, individuando per tempo criticità e rischi. Tutte le informazioni raccolte da una rigorosa valutazione di impatto possono e dovrebbero informare le politiche pubbliche o le strategie d’impresa, le quali a loro volta dovrebbero promuovere e sostenere le pratiche.
D4. Le organizzazioni non profit svolgono attività variegate. Quale che sia l’approccio metodologico per la valutazione di impatto, a te non sembra che qui si discuta di approcci e tecniche “one size fits all”, per cui bisogna valutare l’impatto sociale, ma poi vi sia scarsa attenzione alla necessità di differenziare disegno di valutazione e tecniche a seconda dei servizi erogati? Vi è attenzione per questa esigenza o no? Tu, hai proposte in merito?
R4. Credo che la forbice stia proprio in questo: nel trovare il giusto equilibrio fra indicatori standardizzati e personalizzati. Indicatori troppo standardizzati finiscono per essere poco significativi, oltre che forzare chi si occupa di sociale a piegare il proprio lavoro per rispondere a tale coerenza astratta, con rischi molto alti di deformazione delle informazioni raccolte e della conseguente strategia d’azione (quantomeno quella comunicata pubblicamente). Ma anche di banalizzazione della valutazione d’impatto, che potrebbe ridursi a un’autovalutazione computerizzata sulla base della compilazione di campi pre-formattati. Per converso, indicatori troppo personalizzati non consentono la comparazione e, di conseguenza, una vera valutazione, la quale non può esistere se non in riferimento a obiettivi di risultato confrontabili “(target o benchmark)”. Probabilmente, come sostiene Mario Calderini, un sistema di valutazione standardizzato per ambiti di intervento (le tossicodipendenze, la dispersione scolastica, la disoccupazione…) potrebbe essere il compromesso migliore. Per la stessa ragione, sempre citando Calderini, ritengo che “l’elaborazione dei modelli dei misuratori di impatto sociale spetti alle governance intermedie del mondo dell’impresa sociale e non possano essere imposti dal pubblico per via legislativa, né essere lasciati nella disponibilità di ogni singolo soggetto” (http://www.vita.it/it/article/2016/09/17/impatto-sociale-il-non-profit-accetti-la-sfida-della-misurazione/140802/). Aggiungo anche che in questa fase ancora nebulosa, a mio parere l’individuazione di indicatori e di metodi di misurazione per ciascun ambito dovrebbe nascere da “cantieri di sperimentazione”, “progetti pilota” in grado di restituire la ricchezza del Terzo Settore in Italia, e non “a tavolino”.
D5. Il seminario del FVH al Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale di Milano accostava fundraising e CSR. Quale rapporto fra valutazione di impatto sociale e fundraising? Non vi è il rischio che ci sia ostracismo all’interno del terzo settore verso la valutazione di impatto sociale, semplicemente per il timore che emerga (in termini più rigorosi di quanto possa emergere dal “bilancio sociale”) una scarsa efficacia che comprometta “immagine” e capacità di attrazione di sostenitori e donazioni?
R5. Le realtà cui dovrebbe più interessare una rigorosa valutazione dell’impatto sociale sono proprio quelle del Terzo Settore. Innanzitutto, solo passando attraverso un percorso che parta da una chiara e definita Theory of Change – che metta al centro i cambiamenti [leggi: outcomes] – che si vogliono raggiungere nelle comunità di intervento e le strategie necessarie), si può uscire dal duplice errore di sostenere genericamente “ma è chiaro quello che faccio, è scritto nello statuto/ci conoscono tutti!” oppure “i numeri delle cose che facciamo [leggi: outputs] sono già nel bilancio sociale”. Una chiara Theory of Change è la base per la definizione di indicatori di outcome, prima ancora che di outputs (che prendono senso solo in funzione del loro apporto agli outocomes) e di solide fonti di verifica di tali indicatori. Una verifica rigorosa previene la scrittura di progetti che si muovono “a vista” e, in fase di implementazione, consente di monitorare rischi e opportunità, errori e vantaggi, e di intervenire per tempo. Non è un caso, riprendendo la tua prima domanda sul nuovo Quadro Logico della Commissione Europea, se viene esplicitamente descritto dalla stessa Commissione come uno strumento flessibile, utile al monitoraggio degli interventi e non tanto come un documento amministrativo per la partecipazione a bandi. Rendicontare il cambiamento generato tramite la valutazione dell’impatto sociale sostiene l’accountability presso i donatori istituzionali e corporate e rafforza in modo consistente la capacità dell’organizzazione di fare fundraising. Certo, la valutazione di impatto è un impegno oneroso, da un punto di vista organizzativo ed economico, almeno inizialmente. Ma finché verrà visto come un costo e non come un investimento, non si andrà da nessuna parte.
D6. Quale rapporto fra valutazione di impatto sociale e CSR/corporate fundraising? Semplificando, chi dovrebbe essere più esigente nel chiedere una rigorosa valutazione di impatto sociale? Le organizzazioni non profit o le imprese commerciali che accettano di contribuire alla realizzazione di certi progetti proposti dalle prime?
R6. Per le ragioni che ho cercato di raccontare poco sopra, certamente le organizzazioni non profit dovrebbero cercare tale rigore, ma per le stesse ragioni anche le imprese for profit o gli ibridi (imprese sociali, B-corp ecc.). In ambito CSR/corporate fundraising interviene però un aspetto ulteriore, e cioè il progressivo – seppur lento – spostamento della relazione profit/non profit verso quella che viene comunemente definita multistakeholder strategy. Sempre meno vi sarà chi dà soldi per un progetto pre-confezionato, sempre più lo si costruirà insieme. Dunque, come funziona la valutazione di impatto sociale quando pubblico, privato non profit, privato for profit e società civile si mettono insieme per generare un cambiamento? In questo caso gli attori in campo sono diversi per storia, per cultura, per finalità (mission), per natura giuridica… La valutazione di impatto diviene ancora più necessaria, vista la complessità della partnership. E, dunque, richiede di esser co-progettata in tutti i suoi aspetti, a partire dalla results chain (la logica di intervento) fino alla definizione dettagliata degli indicatori e di chi e come monitorerà i risultati. Tale lavoro non può prescindere dall’inclusione dei cosiddetti “beneficiari” sin dalle prime fasi di ideazione del progetto, i quali non vanno intesi come semplice oggetto passivo dell’intervento, ma come soggetti attivi, portatori di interesse e attori nel processo. In questa cornice, ogni soggetto della partnership partecipa in base alle proprie caratteristiche, competenze e risorse, in una logica di integrazione “addizionale”, per usare una felice espressione utilizzata da Federico Mento di Human Foundation proprio durante il seminario organizzato dal FVH “Fundraising e CSR: opportunità e criticità”.
Christian, mi insegni che ci sarebbero tante altre domande, anche non semplici. Per ora ti ringrazio delle tante considerazioni interessanti e molto utili che ci hai rilasciato.
Più avanti spero abbia piacere ad approfondire insieme altre questioni sulla valutazione di impatto sociale. Magari, possiamo attendere i decreti delegati sulla riforma del terzo settore approvato lo scorso maggio e il varo della Fondazione Italia Sociale e poi discuteremo di nuovo insieme di cosa sarà previsto in merito da tali decreti e dallo statuto della Fondazione Italia Sociale.
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[1] Christian Elevati si occupa da oltre 18 anni di educazione, cooperazione internazionale, processi partecipativi e inclusione sociale, con responsabilità di co-progettazione, strategie di funding, advocacy, program e project management, valutazione dell’impatto sociale, networking e relazioni istituzionali, sia nel settore profit che non profit. Mette la sua esperienza al servizio di organizzazioni del Terzo Settore, Fondazioni e Imprese per aiutarle molto concretamente a raggiungere specifici obiettivi di crescita, senza perdere di vista la visione strategica complessiva.
Profilo Linkedin: it.linkedin.com/in/christianelevati
[2] L’intervista è stata effettuata il 5 ottobre scorso, a margine della riunione tenuta dal nostro network FVH, a Milano, in occasione dell’edizione annuale del “Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale”. Ricordo che lo stesso giorno il nostro network ha curato un seminario nell’ambito del Salone dal titolo “Fundraising e CSR: opportunità e criticità” che ha raccolto vasto interesse e commenti positivi.
[3] Cfr. Elevati C. (a cura di), Contributi all’interpretazione del nuovo quadro logico di EuropeAid, luglio 2016.