La programmazione 2014-2020 dei Fondi Strutturali in Italia. Riformare il sistema di Multi Level Governance prima di “costruire capacità amministrativa integrata”

Il sistema di Multi Level Governance della politica di coesione dell’UE e le riforme in Italia

A partire dai primi anni Novanta, i Fondi Strutturali dell’UE, anche in Italia, hanno acquisito una crescente rilevanza per la realizzazione di interventi di sostegno dello sviluppo economico delle aree più svantaggiate del Paese.

Allo stato attuale, a causa dei tagli al bilancio pubblico degli ultimi anni, imposti dal Patto di Stabilità dell’UE e dalla discutibile decisione di ratificare il Fiscal Compact, i Fondi europei – in primis i Fondi Strutturali – si possono considerare, de facto, l’unica leva finanziaria di cui dispongono diverse Regioni italiane per sostenere le politiche strutturali di sviluppo (se non addirittura per finanziare le spese ordinarie).

A fianco della rilevanza finanziaria, va ricordata quella riconducibile alla forte influenza dei principi dei Fondi Strutturali, specialmente a partire dalla fine degli anni Novanta, sul forte ri-orientamento della politica regionale nazionale, da sempre molto rilevante a causa del dualismo territoriale che caratterizza le condizioni di sviluppo del Paese.

Nel 1998, infatti, venne lanciata una nuova fase delle politiche strutturali di sviluppo nel Mezzogiorno denominata “nuova programmazione”. La “nuova programmazione” teneva conto non solo della rilevanza finanziaria dei fondi dell’UE per l’attuazione della politica regionale nazionale, ma anche del loro sistema di governo, chiaramente informato a una suddivisione multi-livello delle responsabilità giurisdizionali di programmazione e di spesa (Multi Level Governance – MLG).

‹‹Il modello di MLG comunitario risulta sicuramente perfettibile, ma certamente in Italia la sua applicazione alle politiche interne strutturali per lo sviluppo ha rafforzato e indirizzato lo stesso percorso nazionale di riforma e di ammodernamento della PA a tutti i livelli di governo. Processi di empowerment delle Regioni e degli Enti locali e di capacity building sostenuti indirettamente dalla MLG che caratterizza la Politica di Coesione hanno contribuito a superare un modello di intervento pubblico strettamente gerarchico, poco efficiente e anche clientelare, che tanta parte ha avuto nel fallimento dell’intervento straordinario e nella progressiva erosione della competitività relativa del sistema economico italiano›› (M. Bagarani, A. Bonetti, Politiche regionali e Fondi Strutturali, Ed. Rubettino, 2005, p. 12).

Soprattutto sull’abbrivio della riforma costituzionale del 2001 (ex L.C. 3/2001), infatti, sono state portate avanti riforme negli assetti istituzionali (federalismo) e nei processi di governance delle funzioni pubbliche tese a garantire una maggiore autonomia legislativa e finanziaria delle Regioni, ma anche una maggiore efficienza nella programmazione della spesa pubblica. Si è registrata parimenti una crescente integrazione degli strumenti di intervento a sostegno dello sviluppo finanziati dai Fondi Strutturali e di quelli finanziati con risorse nazionali, in ottemperanza al dettato del comma 5 dell’art. 119 novellato della Costituzione.

Il suddetto modello di gestione della politica regionale dell’UE, progressivamente inserito nel sistema amministrativo italiano per gestire anche la politica regionale nazionale, per risultare pienamente efficace richiede: (i) una certa omologazione dei processi gestionali e degli strumenti propri della politica regionale degli Stati Membri dell’UE, (ii) una forte responsabilizzazione delle Regioni che, nel processo decisionale multi-livello dell’UE, costituiscono il perno del processo di programmazione e gestione delle spese a finalità strutturale dell’UE, (iii) un elevato livello di efficienza amministrativa, che deve caratterizzare in primo luogo proprio le Regioni.

Le riforme italiane volte a recepire tale sistema di governo delle politiche strutturali di sviluppo hanno ottenuto solo in parte i risultati sperati.

Dopo le riforme costituzionali del 1999 e del 2001 le Regioni hanno acquistato una autonomia legislativa e amministrativa mai conosciuta in precedenza. Ciò nonostante, come ho avuto modo di constatare eseguendo delle valutazioni degli effetti di queste riforme nell’ambito di gruppi di lavoro coordinati dal professor Massimo Bagarani dell’Università del Molise (gran parte dei risultati di questi esercizi valutativi sono riportati nel volume: M. Bagarani (a cura di); Il governo delle Regioni e lo sviluppo economico. Limiti e rischi del processo di decentramento comunitario; Edizioni dell’Orso, Alessandria; 2012) permangono delle criticità di rilievo:

  • il processo di decentramento giurisdizionale informato al modello di MLG dell’UE è solo in parte coerente con tale modello. Gli aspetti più contraddittori sono: (i) il dettato dell’art. 117 novellato della Costituzione prevede per un numero eccessivo di funzioni pubbliche una discutibile sovrapposizione delle competenze fra livelli di governo. Questo implica un rallentamento dei processi decisionali e un incremento dei costi di coordinamento; (ii) il sistema decisionale, peraltro, è rallentato dall’esistenza di troppi corpi intermedi fra livelli di governo, fra i quali si ricordano gli Enti Parco o anche le Autorità di Bacino (M. Bagarani, A. Bonetti, Evoluzione del sistema di governo delle politiche regionali comunitarie e cambiamenti nella politica regionale nazionale, mimeo, 2006);
  • il trasferimento delle competenze giurisdizionali e amministrative verso il basso (Regioni ed Autonomie Locali) non è stato accompagnato da un simmetrico decentramento di quelle inerenti la gestione della finanza pubblica, soprattutto con riguardo alla spesa in conto capitale;
  • si è registrato un crescente coordinamento degli strumenti di intervento comunitari e di quelli nazionali (Accordi di Programma Quadro, Patti territoriali e altri strumenti della programmazione negoziata). Sarebbe stata auspicabile, tuttavia, una più estesa e incisiva applicazione degli stessi principi di programmazione e di allocazione delle risorse tra le varie Amministrazioni “imposti” dalla normativa dell’UE per i Programmi co-finanziati dai Fondi Strutturali, soprattutto per quel che concerne il rispetto del principio di concentrazione di risorse finanziarie e interventi, l’implementazione di un sistema efficace di monitoraggio e valutazione e un adeguato coinvolgimento del partenariato economico e sociale;
  • si è registrato un incremento nell’efficienza della PA – anche nelle Amministrazioni regionali del Mezzogiorno storico – ma l’impressione è che i recuperi di efficienza della PA italiana non siano proporzionali all’ingente montante di risorse pubbliche – europee e nazionali – che è stato allocato su azioni di capacity building. Come scrive anche Viesti in un pregevole contributo del 2009, ‹‹le Regioni del Sud non sono state e non sono ancora in grado di far fronte alle proprie notevolissime responsabilità. E’ in parte un problema di guida politica. E’ certamente un problema di capacità amministrativa›› (G. Viesti, Mezzogiorno a tradimento, Laterza, 2009, p. 164).

Il tema delle riforme amministrative alla vigilia dell’avvio della programmazione 2014-2020

Alla vigilia dell’avvio del nuovo periodo di programmazione 2014-2020 dei Fondi europei, il tema della centralità dell’efficienza della PA – soprattutto al livello regionale – per l’efficacia e l’impatto dei programmi di spesa è tornato ovviamente al centro del dibattito. Questo anche e soprattutto per i seguenti motivi: (i) i ritardi nell’attuazione dei Programmi di spesa italiani del ciclo 2007-2013 sono una volta di più consistenti e, a meno di 4 mesi dal termine della fase di assunzione degli impegni giuridicamente vincolanti, difficilmente recuperabili in pieno; (ii) le proposte di regolamento sui Fondi europei per le politiche strutturali (Fondi Strutturali, Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale e Fondo Europeo per le Attività Marittime e la Pesca) hanno introdotto le c.d. condizionalità ex ante. In sostanza, la normativa 2014-2020 richiede che siano presenti delle condizioni istituzionali e degli strumenti legislativi che possano garantire una efficace attuazione dei Programmi ancor prima che questi vengano avviati (oppure che gli Stati Membri si impegnino ad operare le necessarie riforme, come concordato con la Commissione in fase di negoziato).

Il tema dei nuovi vincoli di efficacia e di efficienza che dovrebbero guidare una ulteriore riforma della PA italiana e delle sue procedure amministrative, volta a superare definitivamente l’annosa questione dei ritardi di spesa, è al centro di un pregevole volume recente del FORMEZ (cfr. “Costruire capacità amministrativa integrata. Attrezzare la PA per programmare e gestire i Fondi Strutturali nella strategia Europa 2020”).

L’analisi condotta nel volume è davvero interessante, ma l’impressione di chi scrive è che una volta di più vengano affrontate problematiche che avrebbero già dovuto essere state risolte da diverso tempo.

Il volume, infatti, si sofferma una volta di più sulla necessità di ricercare sinergie nell’azione amministrativa dei vari attori in forza dell’ulteriore rafforzamento dell’integrazione fra i vari strumenti imposto dalla normativa comunitaria. A dire il vero, tuttavia, l’integrazione fra gli strumenti è sempre stato dettato dalla normativa dell’UE sin dalla riforma dei Fondi Strutturali del 1988. Una maggiore collaborazione fra le varie Istituzioni – sia nell’ambito di uno stesso livello di governo, sia fra livelli di governo – sarebbe stata desiderabile già nel passato.

Anche con riferimento specifico al tema delle azioni di capacity building, il volume fornisce il condivisibile suggerimento di “passare da un approccio focalizzato sullo sviluppo della struttura ad uno rivolto alle relazioni fra ambiente, strategia ed organizzazione” (p. 89). Tuttavia, la prima considerazione che sorge spontanea è che, in realtà, dovrebbe essere normale in sede di formulazione dei Programmi (e anche delle strategie di capacity building) considerare cruciali le “relazioni fra ambiente, strategia ed organizzazione”. Se la PA italiana ancora non lo fa, allora non c’è da stupirsi che i risultati in termini di attuazione finanziaria e fisica e l’impatto socio-economico dei Programmi lascino ampiamente a desiderare.

Infine, la mia umile impressione è che il volume trascuri certe criticità nelle relazioni istituzionali fra livelli di governo, a cui si è fatto brevemente cenno poc’anzi.

Alcuni suggerimenti per riformare ulteriormente l’imperfetto sistema di MLG italiano

In questo contributo, pertanto, vengono nuovamente richiamate alcune criticità che interessano tanto il processo di riforma istituzionale del Paese (ancorato, auspicabilmente, a principi di federalismo solidale come indicate dall’art. 119 della Costituzione riformata nel 2001), quanto le stesse scelte che vanno maturando in ordine all’utilizzo dei Fondi Strutturali nel ciclo 2014-2020:

(i) negli anni successivi alla riforma costituzionale del 2001 i contenziosi sull’attribuzione delle potestà legislative tra Centro e Regioni hanno evidenziato chiaramente come la decentralizzazione di più poteri alle Regioni può comportare anche dei costi elevati per i cittadini se non si raggiunge un accordo forte preliminare sulle “regole del gioco” e anche sulla figura e sul potere del “timoniere”. In sostanza, per un elevato numero di funzioni pubbliche si è passati da uno Stato troppo centralistico a uno Stato troppo debole, che fatica a imporre il naturale ruolo di guida e di coordinatore. Tutti gli attori istituzionali, invece, avrebbero dovuto accettare l’assunto che se da un lato era auspicabile che il “centro” si ritagliasse un ruolo da “enabler” delle politiche strutturali, era altrettanto saggio consentire al “centro” di svolgere la funzione di “decisore di ultima istanza” (e, quindi, di perno del nuovo assetto istituzionale).

Anche nel contributo di Viesti citato sopra, si evidenzia che ‹‹il nodo maggiore […] è stato lo scollamento fra le politiche di sviluppo, le politiche nazionali, la politica. Molto limitato è stato il coordinamento tra le politiche di sviluppo regionali e le politiche ordinarie. […]  E’ mancato costantemente un centro politico nazionale di coordinamento e di raccordo tanto delle iniziative dei differenti ministeri quanto di quelli delle Regioni. Vi è stato un luogo di coordinamento tecnico, il DPS (n.d.r. Dipartimento delle Politiche di Sviluppo, poi ribattezzato Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica). Ma non vi è stato un luogo di impulso politico…›› (G. Viesti, Mezzogiorno a tradimento, Laterza, 2009, p. 169).

Ciò ha già condotto in alcuni casi a degli autentici cortocircuiti istituzionali nella programmazione e gestione degli interventi (emblematiche sono le difficoltà attuative registrate dai due Programmi Operativi Interregionali 2007-2013 “Energia rinnovabile e risparmio energetico” e “Attrattori culturali, naturali e turismo”) e a ritardi nell’erogazione dei finanziamenti pubblici.

Non è certamente un caso che fra le 7 ormai famigerate “innovazioni di metodo” per la programmazione 2014-2020 in Italia, introdotte dall’ex Ministro per la Coesione Territoriale Barca, vi sia il “rafforzamento del presidio nazionale” (si consulti il documento strategico “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari 2014-2020” pubblicato il 27 dicembre 2012). L’attuale Ministro per la Coesione Trigilia, peraltro, ha confermato una delle indicazioni strategiche di Barca, annunciando il 26 agosto la istituzione dell’Agenzia per la Coesione Territoriale. Il Ministro Trigilia ha rimarcato che ‹‹essa sarà comunque solo un tassello importante, perché il vero nodo è la capacità del nostro sistema istituzionale di funzionare in modo integrato›› (si veda il Comunicato stampa sul sito del Ministero);

(ii) in merito ad alcune scelte strategiche di policy per il rilancio del Mezzogiorno, fra le quali si richiamano il potenziamento delle attività pubbliche e private di Ricerca e Sviluppo, il rafforzamento sistemico della rete stradale e, soprattutto, di quella telematica, il miglioramento del sistema di fornitura di altri servizi di pubblica utilità “a rete”, innumerevoli contributi hanno evidenziato che quella regionale non è la scala di intervento più adatta (l’intervento a livello regionale rischia o di essere sottodimensionato, oppure di produrre risultati che travalicano i confini amministrativi).

In altri termini, per molteplici scelte strategiche si possono certamente attribuire alle Regioni “prerogative” di programmazione e di spesa rilevanti, ma tutti gli attori istituzionali devono accettare che tali “prerogative” vanno esercitate nell’ambito di: (i) strategie di policy di respiro nazionale e (ii) il riconoscimento di un assetto istituzionale in cui al Governo centrale viene riservato il ruolo di “decisore di ultima istanza” (il “centro” deve continuare ad essere, per usare le parole di Viesti, il principale “luogo di impulso politico”). Altrimenti, si rischia di programmare – e poi attuare – degli interventi “fuori scala” (sia in una prospettiva territoriale che in una prospettiva strategica) e che, anche per questo motivo, non producono degli effetti di sviluppo significativi delle aree più arretrate (si vedano i risultati delle valutazioni riportate nel volume del 2012 a cura di Bagarani).

Come già accennato, quanto sopra implicherebbe l’avvio di un processo riformistico ben più profondo di quello – comunque certamente condivisibile – invocato nel volume del FORMEZ. Si tratterebbe di riavviare – in toni più pacati e meno ideologizzati rispetto a quelli registrati nel primo decennio del nuovo secolo – il processo di riforma federalistico del Paese. Tale processo, a mio modesto parere, dovrebbe essere incardinato su:

  • il riconoscimento di un ruolo indiscusso di “decisore di ultima istanza” al Governo centrale (novellando, quindi, l’art. 114 della Costituzione riformata nel 2001);
  • una definizione inequivoca e più razionale delle competenze dei vari livelli di governo in modo da stabilire in modo chiaro le specifiche competenze di ogni livello giurisdizionale ed abbattere i costi di coordinamento (novellando, pertanto, l’art. 117 della Costituzione vigente);
  • il superamento del bi-cameralismo perfetto, con la trasformazione di uno dei due rami del Parlamento  in una autentica Istituzione federalistica in cui siedono e legiferano i rappresentanti politici delle singole regioni, sul modello del Bundesrat tedesco;

(iii) la società italiana continua a chiedere più trasparenza e la possibilità di sviluppare forme di “cittadinanza attiva”, contribuendo direttamente al design delle politiche pubbliche, soprattutto a livello locale. Il tema open government/open data, non a caso, è stato il filo conduttore dell’annuale manifestazione ForumPA che si è tenuta a Roma nel maggio 2013.

In merito va considerato che le stesse proposte regolamentari conferiscono una crescente rilevanza al co-design delle politiche pubbliche, secondo un approccio citizen driven nella definizione delle politiche, che è parte di una più ampia strategia della Commissione volta ad ampliare il novero delle politiche elaborate secondo approcci realmente partecipativi e non tramite semplici consultazioni pubbliche.

Le proposte regolamentari, inoltre, invocano che il principio del partenariato dei Fondi Strutturali sia sempre più orientato verso: processi realmente partecipativi, la consultazione delle parti economiche e sociali anche nella fase di attuazione degli interventi  e un più ampio coinvolgimento nella formulazione di Programmi e linee di azione anche delle organizzazioni senza scopo di lucro.

Se si considera che le scelte che matureranno nei prossimi mesi guideranno le politiche di sviluppo nazionali per sette anni e che un autentico decollo economico del Mezzogiorno è fondamentale per il rilancio della crescita dell’intero Paese, appare ineludibile una riflessione, politica ancor prima che tecnica, sullo sviluppo di un modello di governo delle politiche più efficace. Tale modello dovrà essere coerente con le dimensioni e le caratteristiche della domanda di sviluppo che si levano, dopo anni di recessione, dal Paese nel suo complesso e non solo dalle aree più arretrate del Mezzogiorno. Tale modello, peraltro, dovrà essere capace di corrispondere a quelle domande di riforme e di maggiore trasparenza della politica economica che, ormai, attraversano trasversalmente l’intera società italiana.

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