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I Social Impact Bonds, le politiche pubbliche orientate all’impatto e “il cuore invisibile dei mercati”

‘Whenever a society loses its way in economics, it also feels that it has lost its way morally.
The converse is that any return to economic growth must also be accompanied by moral renewal too’
Geoff Mulgan [1]

Le critiche mosse ai miei due precedenti articoli sui Social Impact Bonds (SIBs) a me sembrano eccessive. Mi è stato fatto notare che le mie brevi analisi sarebbero viziate da una attenzione eccessiva al possibile ruolo dei SIBs quale catalizzatore di importanti riforme delle politiche pubbliche.
Posso assicurare che non è così.
Sulla base dell’analisi di vari contributi di ricerca sono ben consapevole che, affinchè i SIBs – e più in generale gli strumenti di impact investing – siano davvero uno strumento efficace per rinnovare le politiche pubbliche e valorizzare nelle scelte pubbliche un maggiore contributo finanziario ed operativo degli operatori privati (investitori finanziari, imprese di mercato, ma comunque orientate alla creazione di valore condiviso e organizzazioni “mission oriented), siano necessari almeno tre cambiamenti di paradigma:

1. un cambiamento della mentalità dei policy makers e dei processi di formulazione e valutazione delle politiche pubbliche. In forza di tali cambiamenti, il coinvolgimento di operatori privati nella fornitura di servizi di interesse collettivo andrebbe sempre più indirizzato nella direzione di sperimentare forme di contracting-out in cui la performance non viene più valutata sulla base dell’output (ad esempio, numero di corsi di formazione professionale implementati da una organizzazione per dei migranti economici), ma sulla base dei risultati sostenibili prodotti (ad esempio, numero di migranti economici che riescono a trovare una occupazione). Si fa riferimento alle clausole “pay-for-success, che costituiscono uno dei pilastri dei SIBs [2];

2. un cambiamento dell’approccio alla soluzione dei problemi sociali delle organizzazioni del terzo settore (dalle associazioni alle ONG) e di altre organizzazioni ibride che riescono a coniugare obiettivi economici e obiettivi sociali, secondo lo slogan anglosassone “to do good and profit (è per questo motivo che, ai giorni nostri, è preferibile parlare di organizzazioni “mission driven piuttosto che di organizzazioni del terzo settore). Tutte queste organizzazioni – specialmente le più tradizionali – devono mettersi in gioco, rinnovarsi profondamente sia per quanto concerne gli assetti organizzativi, sia per quanto concerne i “modelli di funding” – che devono andare oltre la raccolta fondi – e, non ultimo, adottare modelli e tecniche rigorose di valutazione del loro impatto sociale. Questa direzione di marcia è chiaramente informata all’approccio “blended value introdotto nei primi anni del nuovo secolo da Jed Emerson per rimarcare la necessità che tutte le organizzazioni “mission driven” acquisiscano e consolidino nel tempo la capacità di creare sia valore sociale, sia valore economico-finanziario. Le organizzazioni in questione, peraltro, non dovrebbero considerare valore sociale e valore economico-finanziario come alternativi in un gioco a somma zero, ma strettamente interconnessi; [3]

Immagine ex Pixabay

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3. un cambiamento profondo nel modo di porsi e nelle aspettative degli investitori finanziari (da quelli istituzionali ai c.d. high-net-worth-investors), che se vogliono davvero dare un contributo alla realizzazione di un mondo migliore, devono iniziare a integrare le due tradizionali dimensioni delle scelte finanziarie – rendimento e rischio degli investimenti – con una terza dimensione costituita dall’impatto socio-economico. Questo è chiaramente il messaggio di fondo del rapporto finale della “Social Impact Investment Taskforce” (datato 15.09.2014) che era stata istituita nel giugno 2013 durante la presidenza britannica dell’allora G8. [4]
Ciascuno dei cambiamenti di paradigma appena richiamati presenta delle pietre d’inciampo. Ma, a mio modesto avviso, è il terzo quello condizionato da maggiori criticità.
Infatti, da un lato è senz’altro vero che non è necessariamente detto che gli strumenti di “impact investing” potrebbero rilevarsi capaci di attrarre solamente investitori “orientati all’utilità sociale” (“impact-seeking investors”) e che, quindi, le organizzazioni “mission oriented” che ne sono coinvolte dovrebbero continuare a fare affidamento soprattutto su donazioni dei privati e sui contributi di fondazioni filantropiche, come argomentato da Kasturi Rangan e Chase in un contributo particolarmente critico sui risultati della sperimentazione dei SIBs negli Stati Uniti.
Al tempo stesso, bisognerebbe essere più cauti nel sostenere che questi strumenti potrebbero far emergere “il cuore invisibile dei mercati finanziari”, come si legge nel rapporto finale della “Social Impact Investment Taskforce” (rapporto che, infatti, si intitola “Impact Investment: the Invisible Heart of Markets”). [5]
A tale riguardo, in chiusura, vorrei sommessamente ricordare quanto scrivono Richard A. Brealey et al. nell’edizione italiana di uno dei manuali di finanza più venduti al mondo: «i mercati finanziari […] ‘quando sono buoni sono molto buoni, ma quando sono cattivi sono terribili’». [6]

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Immagine ex Pixabay

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[1] Cfr. Mulgan G., The Locust and the Bee. Predators and Creators in the Capitalism’s Future, Princeton UP, Princeton, 2013, p. 279.
[2] Questo aspetto l’ho già affrontato in diversi post su questo blog e non mi dilungo oltre. Questo non significa, tuttavia, che io lo consideri l’unico davvero rilevante per capire le potenziali criticità e gli effetti sociali positivi dell’impact investing.
Di converso, ribadisco qui che, invece, in Italia il dibattito sulla valutazione dei progetti finanziati dai SIBs o da altri strumenti di impact investing si sta troppo focalizzando sulla valutazione della capacità delle organizzazioni “mission oriented” di cambiare passo e di acquisire nel proprio sistema di gestione lato sensu, anche grazie alla spinta del movimento “impact investing, la costante valutazione dei loro progetti. Si dovrebbe dedicare maggiore attenzione alla valutazione del contributo dei SIBs a:
• migliorare il disegno e gli impatti delle politiche pubbliche;
• contenere la spesa pubblica. Non va dimenticato, infatti, che uno dei fattori che ha dato il via alla sperimentazione dei SIBs sono i vincoli di bilancio sempre più stringenti che, soprattutto dopo la crisi finanziaria del biennio 2007-2008, condizionano l’azione sociale dell’operatore pubblico. Quest’ultimo, pertanto, è sempre più esigente nel richiedere “value for money” e un impatto sociale di rilievo alle organizzazioni private “mission oriented” che svolgono attività complementari all’azione pubblica nel campo della fornitura dei servizi di cura alla persona e alla comunità.

Con riferimento al primo punto, ricordo fra l’altro che trattandosi ancora di esperienze sperimentali di innovazione dei maccanismi di erogazione dei servizi pubblici si dovrebbe valutare non solo il loro impatto socio-economico, ma anche, in modo più olistico, la loro influenza sull’intero ciclo di formulazione delle politiche pubbliche, generalmente suddiviso in tre fasi:
• definizione dell’agenda di policy (definizione dei problemi da risolvere e delle scelte pubbliche per affrontarli);
decision making (fase in cui le scelte pubbliche vengono ufficialmente adottate tramite processi deliberativi formali);
• implementazione (e monitoraggio e valutazione per apprendere dall’esperienza e migliorare successivamente le scelte pubbliche).
Per quel che concerne il contributo al contenimento della spesa proporrò delle riflessioni più circostanziate nel prossimo post del 20 luglio.
[3] Cfr. Emerson J.; The blended value proposition: Integrating social and financial returns. California Management Review, 2003, 45.4, pp. 35–51; Emerson J., The Metrics Myth, BlendedValue, 2015.

[4] Il rapporto finale della “Social Impact Investment Taskforce”, infatti, rimarca a caratteri cubitali che «the financial crash of 2008 highlighted the need for a renewed effort to ensure that finance helps build a healthy society. This requires a paradigm shift in capital market thinking, from two-dimensions to three. By bringing a third dimension, impact, to the 20th century capital market dimensions of risk and return, impact investing has the potential to transform our ability to build a better society for all.» Questa posizione estende implicitamente l’approccio “blended value” di Jed Emerson al comportamento degli operatori finanziari.

[5] Cfr. Kasturi Rangan V.; Chase L.A.; The Payoff of Pay-For-Success, Stanford Social Innovation Review, Fall 2015, pp. 27-36.

[6] Cfr. Brealey R.A.; Myers S.C.; Allen F.; Sandri S.; Principi di Finanza aziendale. VII edizione, McGraw Hill Italia, Milano, 2015, p. 4.

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